di Maria Sveva Scaglione
La serie di fotografie di Tammy Rae Carland, artista americana poliedrica, intitolata “I’m Dying up here” (letteralmente “Sto morendo quassù”) si concentra sul tema della solitudine, condizione che in questi mesi è diventata ormai una solitudine forzata, obbligata, necessaria per la sopravvivenza. Eppure, non è necessario alla sopravvivenza anche il contrario esatto della solitudine? Potersi vedere, toccare, essere parte di una comunità, un “noi”?
Nella serie fotografica, Carland mostra delle figure che sembrano essere colte di sorpresa, a metà di un’azione, ma senza che sia visibile il loro volto, forse per dare a tutti la possibilità di immedesimarsi nel soggetto della fotografia. Le figure di questa serie sembrano tutte in attesa di qualcosa, di un evento, o forse semplicemente in attesa di rivelare loro stesse. Il tema dello svelarsi, del togliersi il velo (vedi I’m dying up here, #1 Strawberry showcase sotto) si ripete per tutta le serie. Mi ha fatto pensare alla voglia di uscire di casa che in questi giorni permea le nostre pareti, striscia nelle nostre abitazioni come un serpente: è il desiderio di mostrare un lato di sé che pensiamo di aver scoperto in questi giorni di solitudine, speranzosi del fatto che forse ci sia qualcuno là fuori che non solo si aspetta di vedere noi ma anche di scoprire ciò che siamo diventati, come un pubblico che ci attende.
Al contempo, la nostra paura della percezione altrui, l’idea di un pubblico che potrebbe non ascoltarci o, peggio, giudicarci erroneamente, non si concilia con l’idea di un ritorno alla realtà “felice” come tutti lo immaginiamo. Assomiglia, purtroppo, ancora, alla realtà distopica in cui stiamo vivendo adesso. L’ispirazione per queste opere è stata data dalla Stand Up Comedy, un tipo di spettacolo comico dove una persona sta su un palco e cerca di far ridere il pubblico. Normalmente, queste sono scene ilari, che ci fanno sorridere. Nelle opere di Tammy Rae Carland, invece, si toglie la magia del rapporto intrattenitore-pubblico e si crea invece un oscuro focus sulle emozioni che si provano a venire messi “sotto esame”. Sono le stesse emozioni che, a mio avviso, ora provano i nostri medici ed infermieri, ogni giorno giudicati per il loro lavoro. Questo perché siamo pieni di rabbia verso figure che crediamo responsabili del nostro dolore, quando in realtà non essendoci un colpevole preciso, cerchiamo capri espiatori ovunque. Da questa necessità di puntare il dito verso qualcuno viene perpetuato il circolo vizioso di odio e tempeste mediatiche che caratterizzano questi anni in cui i social media sono diventati parte integrante della nostra vita. In un’epoca in cui è molto facile finire con un riflettore puntato addosso, quanti di noi desidereranno coprirsi il viso, come le figure delle foto della Carland?
Ora come ora siamo soli, ma uniti dallo stesso desiderio e dalle stesse incertezze; che questo possa essere forse un trampolino di lancio per un futuro migliore, lo speriamo tutti. Ma la possibilità di venire inghiottiti dal buio, come i personaggi della Carland, è altrettanto reale. Cosa fare per evitare ciò? Non ho risposte. Ma sono certa che sarà un’altra occasione per l’arte di raccontarci una nuova società, una nuova realtà e di rendersi, come ha sempre fatto, testimonianza storica ed emotiva di questi momenti.