ITALIA. IL PROGETTO CHE MANCA

Mappe per una strategia nazionale di sistema

Di Marcello Panzarella

La crisi pandemica del coronavirus ha rivelato la fragilità delle nostre metropoli e delle loro periferie anche più lontane, dove alla concentrazione dei traffici, delle attività, delle produzioni, dell’inquinamento atmosferico, è corrisposta la concentrazione massima e più letale dei contagi. Si comincia a capire che il prezzo pagato e il rischio di nuovi contagi impongono un cambio di passo, anche se è chiaro che lo stato attuale non può essere cambiato istantaneamente e senza idee efficaci e condivise. 

Una quantità di proposte riguarda oggi la riorganizzazione delle abitazioni: aumentarne le dimensioni minime, migliorare la distribuzione dei loro ambienti e funzioni, disporre di più spazi domestici all’aperto, di ambienti per le quarantene, di spazi per il tele-lavoro, mentre per la città si ridiscutono i servizi di quartiere, il sistema del commercio e quello dei trasporti, anche in ragione del distanziamento sociale. Certamente un passaggio alla realizzazione porrà – o porrebbe in risalto la difficoltà delle condizioni reali, delle disponibilità vere, caso per caso, di spazio e risorse economiche. In ogni caso, resta evidente che le gravi carenze nell’organizzazione urbana emerse a seguito della pandemia impongono oggi una enorme necessità di progetto, e di moltissimi specialisti del progetto, soprattutto gli architetti, perché il progetto di architettura è il solo strumento capace di risolvere i problemi dell’assetto fisico dello spazio costruito. Di più, una ingente, significativa necessità di progetto si impone oggi ben oltre la dimensione domestica e urbana. Perché proprio la situazione di squilibrio, quella concentrazione di abitanti e attività che ha favorito il contagio pandemico nelle maggiori aree metropolitane, richiede un progetto amplissimo di riequilibrio tra le aree congestionate e quelle abbandonate del Paese. In atto, un progetto del genere non esiste, ed è mancato da molto prima della crisi del virus, che la sua assenza ha favorito. 

Una ingente, significativa necessità di progetto si impone oggi ben oltre la dimensione domestica e urbana. Perché proprio la situazione di squilibrio, quella concentrazione di abitanti e attività che ha favorito il contagio pandemico nelle maggiori aree metropolitane, richiede un progetto amplissimo di riequilibrio tra le aree congestionate e quelle abbandonate del Paese.

Esistono invece una serie di progetti separati, di settore, riguardanti una pluralità di “amministrazioni” variamente collocate nella galassia degli interessi privati di scala nazionale, o degli interessi nazionali gestiti privatamente. In generale – nonostante i cosiddetti accordi di partenariato, gli accordi-quadro di programma, e tutto l’armamentario complicatissimo delle procedure di finanziamento nazionale e comunitario delle azioni di innovazione e gestione di reti e filiere produttive – i legami tra i diversi attori rilevanti sul territorio si sono rivelati sempre più deboli dal punto di vista del bene comune, e sempre più forti dal punto di vista del conseguimento di interessi economici puntuali; questi ultimi sono prevalsi fortemente, e hanno condotto a uno stato di squilibrio territoriale assolutamente inedito per l’intensità e l’accelerazione dello squilibrio stesso. Una parte – non tutta – delle sue cause sta nelle differenze e nelle interazioni tra due ambiti concettuali spesso concorrenti: l’accordo e la strategia. È la misura del loro rapporto a decretare la direzione degli esiti e degli eventi. Molto dipende però dalla distinzione effettiva degli interpreti, dalla natura e intenzioni degli attori in campo, e dalla capacità o volontà di ciascuno di porre freno, ma anche direzione, all’altro. Dal punto di vista degli attori più diffusi, potremmo parlare di gioco down-up e up-down, cioè dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, tenendo comunque presente che down e up hanno ciascuno diverse gradazioni – ovvero gerarchie – al proprio interno, e fermo restando che alla strategia dovrebbero competere il culmine dell’up come pure le decisioni conseguenti e competenti.

Uno dei caratteri della modernità è riposato sul discernimento analitico dei dati o componenti; esso ha fatto coppia inscindibile con la ripetizione protocollare degli esperimenti, per la conferma dei loro esiti. Negli ultimi secoli ciò ha prodotto progressi senza precedenti in tutti i campi delle attività umane. Tale carattere, tuttavia, che è più dello specializzarsi in profondità che del dominare in ampiezza, a un certo momento ha prodotto nel sapere e nelle attività umane una perdita di contatto con la complessità del reale, mostrandosi, più che uno strumento, un ostacolo alla comprensione del tenersi insieme degli aspetti variegati del mondo. La difficoltà di dominio della complessità da diverso tempo ha imposto alle Scienze una retroazione in direzione dell’intreccio delle ricerche in termini multidisciplinari, più orientati alla visione del tutto in quanto unicum e non come somma di parti. Tuttavia, l’attitudine al separare è penetrata in profondità in ogni altro aspetto della società industriale e postindustriale, perdurandovi spesso in modo pervicace. Ciò vale particolarmente per l’Italia.

L’Italia è un Paese storicamente giovane e di complessione debole, frutto di un processo unitario affrettato e per più versi iniquo. Dopo gli “anni di piombo” che il terrorismo inflisse alla Repubblica nata dalla Resistenza antifascista, e dopo la successiva crisi dei partiti, l’Italia ha largamente perduto quella potente spinta propulsiva che, dalla ricostruzione post-bellica in poi, l’aveva condotta al cosiddetto boom economico degli anni ’60. Insieme con tale perdita, l’Italia ha anche largamente dismesso le funzioni e le capacità governative di programmazione, a suo tempo messe in opera nell’equilibrio, difficile ma sapiente, tra lo statalismo e il liberismo: quell’equilibrio – più pragmatico che ideologico – di cui l’ENI di Enrico Mattei era stato un esempio particolarmente eloquente. La rinuncia alla programmazione, insieme col passo libero lasciato al primato – più apparente che reale – dell’intrapresa, hanno avuto riflessi di grande portata. Gli accordi sono prevalsi sulla strategia. Ovvero le strategie per conto proprio preposte a ogni accordo hanno minato la capacità e le possibilità di mantenere una visione unitaria del futuro del Paese e impedito ogni eventualità di tenuta strategica di legittimi, ben identificati e prevalenti interessi nazionali. La perdita di una visione generale e orientata, dotata di capacità di discrimine e di decisione, anzi la perdita della consapevolezza della sua necessità, dunque la perdita della capacità di produrre strategia, hanno consentito il riemergere e l’accentuarsi dei difetti, delle sperequazioni e delle iniquità che già avevano inquinato il processo unitario nazionale, oltreché di antichi particolarismi storici e delle gelosie peggiori, come il razzismo. 

In termini di assetto del territorio nazionale, alla separazione dei compiti tra discipline quali l’architettura e l’urbanistica – che per tutto il periodo della Ricostruzione e del successivo “miracolo economico” erano rimaste fortemente intrecciate in unità e comunità d’intenti e metodo – è corrisposto il prevalere di visioni e prassi separate e analitiche, in cui la complessità dei territori è stata ridotta all’analisi di alcuni parametri costitutivi, e il progetto è stato surrogato dalla norma. Se la necessità di una correzione al puro zoning è incominciata faticosamente ad emergere, la logica della specializzazione ha continuato a prevalere a lungo. Tuttavia – dato che i flussi e i riflussi sono un carattere molto ben rappresentativo della sostanziale rinuncia al governo del territorio – alla logica della separazione è succeduta la logica della dispersione, anzi la prassi, più che la logica, della diffusione urbana: fatta di residenze, imprese artigianali, e di una serie di servizi, in massima parte sparpagliati nelle “aree forti” del Paese. Alla scala del territorio nazionale, le polarizzazioni estreme, fatte di concentrazione demografica ed economica e di corrispondente svuotamento e declino, sono state largamente prevalenti. Oggi, le mappe dei luoghi della strage da virus si sovrappongono quasi perfettamente a quelle della maggior densità demografica e d’impresa, e a quelle della maggiore concentrazione e densità dell’inquinamento atmosferico. Tali mappe, finalmente disegnate, rappresentano in modo lampante un Paese fortemente diviso e squilibrato, oggi come mai nel passato.

Per riprendere il governo del territorio, vale a dire il governo del destino di un Paese, occorre della strategia. Una competenza strategica, una materia strategica, non si costruiscono però in una notte.

Ne conseguirebbe che alcune città, soprattutto Milano, non dovrebbero più accrescere le loro cinture e dovrebbero smettere di diffondere il loro sprawl nelle campagne residue, e, ancora, che a questo scopo bisognerebbe resuscitare una programmazione nazionale capace di guidare un riequilibrio dei pesi e della presenza umana sul territorio, accentuatasi nelle aree forti dopo la rinuncia al ruolo-guida dello Stato, e al conseguente laissez-faire dei potentati economici. È ormai però evidente che ovunque lo squilibrio superi delle soglie, prima o poi si finisce col pagarne il prezzo; per esempio, il dissesto idrogeologico da una parte e l’inquinamento dall’altra. Oppure lo spopolamento e la penuria delle migliori opportunità di vita e di lavoro a carico delle aree interne, contro la concentrazione demografica nelle pianure del Nord e lungo le coste centro-meridionali. Ovvero gli estremi nell’offerta o disponibilità di servizi contro gli altri estremi LEP – livelli essenziali di prestazioni minime – rimasti al Sud insoddisfatti. E, in definitiva, da una parte l’agonia del Sud e l’emigrazione di massa del suo personale più esperto in cerca di lavoro, contro, dall’altra, l’agonia del Nord, sempre più logorato dagli eccessi dell’antropizzazione imposta al suo ambiente. Non si tratta di processi lenti, ma di dinamiche sempre più accelerate, che si alimentano come fa un buco nero, rimaste purtroppo senza governo.

Per riprendere il governo del territorio, vale a dire il governo del destino di un Paese, occorre dunque della strategia, Una competenza strategica, una materia strategica, non si costruiscono però in una notte. Mi piace pensare ai grandi strateghi del passato: da Alessandro Magno, a Giulio Cesare, fino a Napoleone, nessuno di loro ha mai pensato di poter fare a meno delle carte geografiche di cui al suo tempo poteva disporre. Le mappe del mondo come quelle del campo di battaglia, sono state imprescindibili, come pure la capacità dello stratega di interpretarne la morfologia sottesa e le opportunità a quella connesse. Non ho mai visto, però, una vera mappa allegata all’ambiziosa Strategia Nazionale delle Aree Interne. Cioè una mappa di progetto. Non dico una mappa – quella esiste – della loro collocazione territoriale, ma un’altra, a quella sovrapposta, disegnata con poche linee chiare, nette, capaci di restituire il senso, la direzione, l’orientamento, di tutta una strategia, anzi di quella che si presenta come “la” strategia.

Una mappa capace di far capire, per esempio, che nessuna delle aree interne del Sud, che sono la stragrande maggioranza, dista dalle coste più di ottantaquattro chilometri in linea d’aria, con punte minime di quattordici chilometri, estremo assoluto, in Calabria. Capace, ancora, di comunicare con i tratti di un progetto che a tale constatazione è necessario rispondere con passi conseguenti, per esempio con un disegno delle infrastrutture dei trasporti in grado di mettere facilmente a profitto tale “vicinanza”: un’opportunità che non è praticabile in paesi tanto più massicci come la Francia o la Spagna. E ancora capace, quella mappa, di spiegare come sia stato possibile – e come possa e anzi debba non avvenire ancora – che in un Paese tutto immerso in quel mare così poco distante da ogni sua contrada, i porti italiani che smaltiscono la quota maggiore dei traffici intercontinentali dell’Italia si trovino a nord della cosiddetta “Linea Gotica”, da una parte fin sotto le Alpi liguri e i confini con la Francia, e dall’altra fin sotto le Alpi Giulie e praticamente a ridosso del confine con la Slovenia. Mentre le quote dei porti meridionali crollano.

Emergerebbe concretamente, da quella mappa di progetto, che non si tratta di immaginare strategie per conto proprio – nel caso specifico, quella per le aree interne – ma semplicemente una Grande Strategia Nazionale che la comprenda, un obiettivo verso cui il Paese possa convenientemente condursi nel suo insieme, per quanto acciaccato e complicato. Ed emergerebbe quanto sia stato distorcente l’aver messe tutte insieme, in un solo fascio, le valli interne alpine da una parte, e quelle della Sila, dell’Aspromonte, e delle Madonie dall’altra. La mappa ci mostrerebbe che esiste almeno un elemento geografico, che poi è intrinsecamente anche storico, che mette immediatamente in crisi l’assunto della “strategia”: la imparagonabile distanza delle une e delle altre aree dall’unico vero polo rimasto nel Paese, quella Milano e quella città-regione ormai travalicante i confini stessi della Lombardia, dove si attesta la pietra di paragone di ogni attuale diseguaglianza nazionale.

Non ho mai visto una vera mappa allegata all’ambiziosa Strategia Nazionale delle Aree Interne. Non dico una mappa della loro collocazione territoriale, ma un’altra, a quella sovrapposta, disegnata con poche linee chiare, capaci di restituire il senso di tutta una strategia, anzi di quella che si presenta come “la” strategia.

Occorre costruire mappe della realtà vera, e disegnare su quelle il progetto di un’Italia più nuova, nel bilanciamento tra stato attuale e necessità di tutto quanto il Paese, dentro l’orizzonte di un riequilibrio da perseguire nel tempo, senza avventure ma a ritmo incalzante, secondo un numero limitato di priorità. Occorrerà osservare in quelle mappe che l’Italia, la sua parte peninsulare – e massimamente il Sud, con tutte con tutte le sue aree interne – sono immersi nel mare Mediterraneo, quello che nelle (poche) cartine della SNAI semplicemente non esiste, sui cui limiti si attesta però il nostro destino più concreto: quello segnato dall’Africa, dall’Asia più vicina e da quella più lontana, e dal resto dell’Europa meridiana. Occorre disegnare al suo intorno rotte e porti, piattaforme logistiche e linee infrastrutturali, collegamenti e ponti, e agire non più di rimessa, ma attuando per la prima volta, in modo pacifico, un grande progetto e una grande iniziativa di rinascita, in uno spazio di uguali opportunità, sia interne al Paese, sia con altri attori, fuori di esso, lungo le sponde di questo mare. E, all’interno del Paese, contemporaneamente, in un lavoro di andata e ritorno, di prova-errore-correzione, occorrerebbe comprendere come in un riequilibrio generale ogni realtà locale possa definire dei limiti non rigidi per il proprio libero associarsi in reti o circoli , e come questi possano implementarsi, con quale varietà e fittezza, e quale serie di competenze locali, anche esclusive o rare; e quale grado di autosufficienza o di dipendenza perseguire, secondo quale lista di dotazioni imprescindibili, di abilità o perizie indispensabili. Insieme con ciò, occorrerebbe comprendere come “appendere” i punti, i circoli, le reti locali, alle linee, ai corridoi, alle rotte, che – in un mondo che in ogni caso non tornerà indietro dalla globalizzazione – segneranno e fenderanno comunque, con modalità probabilmente differenti, la faccia della terra e le acque dei mari.

[30 aprile 2020]

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