Una conversazione, con uno degli studi italiani di Design che riteniamo più rappresentativi di un modo originale di rappresentare la cultura del progetto nel nostro paese. Iniziamo con una domanda specifica, sul rapporto che spesso nei vostri lavori ha come riferimento gli elementi naturali. Quanto è importante il dialogo con la materia?
E’ importantissimo.
L’etimologia latina del termine “mater” lo suggerisce, perché tutto esiste grazie alla “madre”. Non si tratta di sola massa, spazio ma proprio dell’esistere. Quando abbiamo in mano un sasso, possiamo non entrare in quel pezzo di storia? In quella materia che può, tanto, raccontare?
Succede con qualsiasi materiale che nasce, si trasforma, che è vivo nel suo presente.
Ogni elemento della natura crea un dialogo, prima di tutto con noi, poi tra gli stessi materiali ed è tutto ciò che determina il nostro modo di progettare, perché diventa impossibile non ascoltare quando hai i materiali tra le mani.
Da una parte abbiamo la meraviglia dei materiali e dall’altra abbiamo la meraviglia dei saperi, delle conoscenze che l’artigianalità ed il lavoro umano hanno portato e sviluppato nei secoli.
Due saperi incredibili ed ecco che il dialogo ancor più si amplifica – come nel caso de La Casa di Pietra: materiali, profumi, consistenze si mescolano e al tempo stesso si identificano in storie, leggende ed altri saperi.
Abbiamo bisogno di questo sapere manuale, delle mani esperte degli artigiani per riuscire a comporre dialoghi meravigliosi.
Dopo questo periodo di emergenza, come sta cambiando e come cambierà il modo di abitare, tra innovazione, intelligenza ed efficienza?
Il modo di lavorare sicuramente ha subito una serie di pressioni che inizialmente potevano essere viste come negative, ma alla fine questo spazio temporale – per alcuni aspetti – non è stato un momento involutivo. E’ stato un periodo in cui la riflessione, il tempo ed una serie di condizioni che prima erano private dalla velocità e dall’abitudine di lavorare sempre in maniera accelerata – sia da parte delle aziende che dai clienti privati – hanno ricreato equilibri più naturali.
D’altra parte anche il nostro lavoro è cambiato molto; da tre mesi siamo solo noi due in studio perché gli altri ragazzi lavorano a distanza, da casa. E’ un processo a cui non siamo così disabituati, abbiamo sempre utilizzato questo metodo (anche come opera di controllo nei confronti dello sviluppo dei progetti; ne La Casa di Pietra ad oggi sono presenti 46 aziende ed artigiani dislocate in tutta Italia e per seguire l’evoluzione dei progetti e la loro realizzazione non possiamo stare continuamente in giro per l’Italia, naturalmente).
Senza dubbio alcune fasi sono più rallentate, altre più agili e ci permettono di gestire il tempo e la riflessione in modo più profondo. Non sappiamo se riprenderemo a lavorare come prima o se resteremo in questa nuova condizione (che al momento apprezziamo).
L’essere umano è abitudinario ed è possibile che fra un pò di tempo ritornerà tutto come prima, perché i ritmi delle aziende non rallenteranno, andranno più veloci.
Il mondo dell’abitare, dal nostro punto di vista, non è cambiato assolutamente; è diventato ancor più cosciente, lo spazio abitato è luogo che ti avvolge, ti coinvolge, è una sorta di nido, di protezione, specialmente da un punto di vista psicologico. Nel momento in cui la chiusura era così evidente, era così ferrea, stare chiusi fra le quattro mura di casa, identificava anche una condizione di sicurezza, tranquillità.
Gli sforzi progettuali che si sono visti in quel periodo, al contrario, ci hanno sempre lasciati perplessi; le aziende e i creativi che si sono cimentati nella progettazione di spazi chiusi, dai box in plexiglas sulle spiagge alle mascherine di tutti i tipi sono sembrati da subito una collezione di “superfetazioni” inutili, che hanno assorbito moltissima energia creativa “a vuoto”.
L’unica cosa da progettare – secondo la nostra visione – non era tanto l’oggetto, non tanto lo spazio, ma il comportamento. Progettare un comportamento era quello che poteva risolvere in maniera più drastica tutte le problematiche legate alla diffusione del virus.
E pare che il tempo stia dando ragione a questa seconda strada…
Sappiamo tutti quanto sia importante coltivare bellezza, ma non tutti sanno coltivare la giocosità come voi. Diciamo che la giocosità è un po’ la vostra firma. Raccontateci il vostro approccio in tal senso e quali siano le altre qualità che un buon progetto di design deve avere.
Intendiamo l’attitudine al “gioco” come esperimento, come ricerca, come l’atto del bambino che accumula esperienze. E’ quella componente che offre la possibilità di ascoltarti, di sperimentare, di provare, di non aver paura di sbagliare e di andare oltre, fino ad entrare nei meandri dell’immaginazione, perché giocare ti mette sempre in relazione con qualcuno, con qualcosa. Saper relazionarsi porta a diversi tipi di sensibilità, fino ad arrivare ad una creazione di un immaginario, di un mondo che non c’è, ma che vorresti fare esistere; è un giocare per creare storie, leggende che si trasformano in racconti solidi.
A questo aspetto teniamo tantissimo, perché pensiamo veramente che bellezza e gioco – nel senso di ricerca – possano in qualche modo salvarci, diventare quella piccola goccia che forma l’oceano.
Molto più difficile è andare oltre ciò che si vede per arrivare a ciò che non è solo tangibile. Per questo motivo ci piace considerare la componente emozionale una funzione del “buon prodotto”, quella parte emotiva per percepire cosa esiste oltre l’oggetto.
Gli oggetti che sopravvivono al tempo e che diventano icone hanno dentro di sé anche l’aspetto immateriale, non descritto dal progettista, non descritto dai critici ma che trasforma gli oggetti in “elementi affettivi”, che passano il limite del tempo.
Un oggetto che sopravvive al tempo è inoltre ecosostenibile, anche se fatto di plastica – perché non va in discarica – e gli “oggetti felici” sono quelli che donano felicità a chi li utilizza e che vengono tramandati da una generazione all’altra.
Il vero valore di un prodotto, di un oggetto, sta proprio in questi ingredienti.
Anche noi adulti dobbiamo giocare per apprendere, proprio come fanno i bambini.
Spesso questo processo lo perdiamo perché il gioco viene preso come un aspetto poco serio, invece giocare è una delle cose più serie che ci possano essere al mondo.
Dal vostro primo progetto fino agli ultimi, cos’è cambiato in questi vent’anni di lavoro sul progetto di design?
E’ cambiato tutto.
Uno dei primi progetti presentato al Salone Satellite nel 1999 arrivò in sogno.
Una lampada in polipropilene; avevamo visitato l’azienda che ci aveva presentato questo materiale e durante gli esperimenti – avvenuti in un’esperienza di sogno lucido – si concretizzò la lampada “Lucciola”, che ricordiamo con grande affetto.
I sogni per noi sono importantissimi e se c’è una radice rimasta in questi vent’anni anni è riuscire ad entrare dentro la parte più intima dell’oggetto, fino ad arrivare al sogno.
Il tempo si è poi stratificato ed oggi continuiamo a sviluppare progetti in maniera più calibrata, più equilibrata, più costruita, con una metodologia progettuale più cosciente che incosciente/onirica. I vent’anni di attività ci hanno allontanato dal “sogno d’infanzia” e ci hanno condotto ad una maturità più solida, senza però perdere queste connotazioni.
Un altro elemento che riteniamo importante è sicuramente fornito dalle relazioni.
E’ un aspetto fondamentale nel mondo del progetto ed è proprio nel momento in cui ti relazioni con l’altro che poi si attivano tutta una serie di stimoli che portano alla crescita di un’idea.
La Casa di Pietra ha conoscenze accumulate che si sono consolidate e che hanno generato un percorso nato in primo luogo come momento espositivo per Marmomac fino ad evolversi in maniera naturale in un progetto imprenditoriale, mettendo in fila una serie di collezioni, di realtà artigianali italiane.
Una fabbrica diffusa che dal 2014 ad oggi vede nascere circa 70 collezione per oltre 300 oggetti.
La Casa di Pietra è un progetto imprenditoriale “casuale” che ha raccolto le esperienze precedenti e le ha rese concrete, collegandole in un’unica storia, in un unica narrazione.
Nel tempo è diventato capofila di tutta una serie di esperienze che continuano a crescere, ad evolversi e a rigenerarsi.
Il segreto? Abbiamo tenuto duro sull’aspetto concettuale del progetto; spesso i progetti imprenditoriali nel momento in cui arrivano a fare il salto – da progetto culturale a progetto imprenditoriale – ed incontrano il mercato si inaridiscono, scendono a compromessi pesanti perdendo l’anima progettuale. Devi cominciare a “fare quantità”, dicono.
Non siamo mai stati interessati alla quantità, abbiamo sempre cercato di lavorare sulla qualità, sul nostro modo di leggere e di scrivere e di intercettare quelle persone che sono in sintonia con il nostro modo di pensare, senza seguire i trend, ma cercando di diventare trendsetter… di essere seguiti ed “inseguiti”.
Oggi fortunatamente gli oggetti possono essere facilmente acquistati in qualsiasi parte del mondo, ovunque li desiderano. Si ritorna all’aspetto dell’affettività dell’oggetto, una componente molto importante; diventano “piccole icone” da custodire gelosamente nella propria casa, ritornano a quel senso di desiderio che la grande produzione ci ha fatto – in molti casi – perdere. Si parla sempre di design industriale, sicuramente fondamentale, ma si perde di vista l’arte del saper fare dei laboratori artigianali… il primo anello produttivo di moltissimi marchi italiani.
Si può perdere la bellezza di un intarsio? Di un’incisione? Di un materiale lavorato a mano con sensibilità artigianale o da macchine – altrettanto “sensibili” – a controllo numerico?
Insegnare la sensibilità ai giovani progettisti dovrebbe essere il dovere della scuola, della didattica. Connettere le Università con le realtà del territorio e con gli artigiani è importantissimo, soprattutto per poter affrontare i temi progettuali in maniera approfondita, sia sull’aspetto immateriale che materiale.
Cosa vi piacerebbe progettare idealmente?
La bellezza dei sogni è che sono improvvisi e che non te li aspetti.
Il segreto è andare oltre, saper attraversare lo specchio.
Quanto è significativa, nel vostro lavoro, la fusione tra il segno e la materia che si fa prodotto?
Il segno arriva in modo consequenziale rispetto a una serie di riflessioni; sono processi che partono da storie, da narrazioni che ad un certo punto si convertono in pensieri e che si solidificano. Il segno segue un processo creativo che si basa soprattutto su riflessioni teoriche, concettuali e che poi conducono a forme che restano primitive e molto semplici.
Cerchiamo sempre di togliere dall’oggetto curve inutili, linee inutili, funzioni inutili.
Alla fine del percorso gli oggetti restano essenziali per essere letti in maniera naturale e semplice. Gli oggetti de La Casa di Pietra hanno una loro connotazione, sono oggetti non sempre “finiti”. Quando li fotografiamo sono spesso scomposti o lontani dalla idea originaria perché prende forza il senso del divenire, dell’interpretazione; li usi secondo le qualità che tu riconosci in loro e non soltanto per ciò che noi abbiamo voluto identificare nel momento che li abbiamo pensati.
Quanto vi identificate culturalmente nella continuità del segno italiano?
Più che “con il segno” ci identifichiamo “con il territorio”; non riscontriamo una continuità di segno (perché non c’è il riconoscimento della forma), piuttosto perseguiamo la strada del riconoscimento delle radici.
Crediamo che sia fondamentale (prima di creare) scavare, prendere coscienza di tutto ciò che è circostante. Il segno non lo intendiamo come forma, ma come continuità, come territorialità, come radice e diviene una naturale conseguenza.
E’ un linguaggio estremamente diversificato da Regione a Regione; l’Italia non è una Nazione con un’unica identità, ne ha molteplici ed in ogni Regione ci sono una serie di piccole identità, con le loro tradizioni, le loro storie, conoscenze artigianali dotate di sensibilità diverse.
Tutte queste caratteristiche si proiettano non solo fra le persone, ma anche fra le persone e gli oggetti, che sembrano inanimati ma che al contrario sono dotati di un’anima interiore, sono un’estensione di chi li produce, di chi li pensa, sono elementi che fuoriescono dal tuo corpo e diventano altro.
Sono tante piccole identità che si fondono in un’unica identità e che si proiettano verso l’esterno. Questa ricchezza territoriale, caratterizzata da tantissimi linguaggi, alla fine diventano valori che rendono prezioso il territorio, il cibo, il design, la moda fino ad arrivare a qualsiasi tipo di ulteriore espressione umana.
gumdesign
Laura Fiaschi (Carrara, 1977) designer e grafica
Gabriele Pardi (Viareggio, 1966) – architetto. Si occupano di architettura, industrial design, grafica, art direction per aziende ed eventi. Tra i loro clienti AntonioLupi, Biennale di Venezia, Bormioli Rocco, Colle Vilca, De Castelli, De Vecchi Milano 1935, Fiat, F.lli Guzzini, Friul Mosaic, Invicta, Lagostina, Lavazza, Martinelli Luce, Max&Co, Mercedes-Benz, Museo Pecci, Nastro Azzurro, Red Bull Italia, San Pellegrino, Serafino Zani, Styl’Editions, Swarovski Italia, Triennale di Milano, Yoox. Ricevono numerosi premi tra cui la Nomination Edida 2020 per la collezione Gessati disegnata per AntonioLupi, l’Adi Booth Design Award categoria “Ricerca” per lo stand Styl’editions, il Premio Donna del Marmo 2019, il Best Communicator Award 2014 categoria Design, il Primo Premio al concorso internazionale di creatività “Swiss in Cheese”, il Primo Premio al concorso di architettura per Marinella di Selinunte, il Primo Premio al concorso nazionale “Manifesto per il Carnevale di Torre del Lago Puccini”, il 2° Premio (2012) e quattro menzioni speciali al concorso internazionale “Young&Design”, il Secondo Premio al concorso su invito “Dignity Design”; sono fra i designer selezionati per le mostre “Prime Cup” e “New Italian Design” curati dalla direttrice Silvana Annicchiarico per la Triennale di Milano e per l’esposizione “Theater of Italian Creativity” a New York curata da Vanni Pasca. Alessandro Mendini seleziona per il Design Museum della Triennale di Milano il calice da degustazione Swing; Dyade Ltd invita Gumdesign a rappresentare il design italiano per I.D.E.A. a Londra durante il London Festival Design e il Museo Magma accoglie nella permanente alcuni prodotti disegnati dallo studio; sono selezionati dalla Triennale di Milano per un’importante mostra al Museo Santral di Istanbul e Vittorio Sgarbi li sceglie per il Padiglione Italia (Biennale di Venezia) al Museo Pecci di Prato. Il MoMa di San Francisco seleziona Swing e Calici Emozionali per un’importante mostra e per la permanente del museo. Il Museo del Vetro di Shangai seleziona i Calici Caratteriali per la permanente del museo. Dal 2008 seguono la direzione creativa di “Cambiovaso” per l’azienda Upgroup che ha coinvolto 30 designers internazionali; sono art director e membri del comitato di redazione di Bau, contenitore di cultura contemporanea. Seguono la direzione creativa del brand Styl’Editions da ottobre 2018 e l’immagine aziendale AntonioLupi da gennaio 2020. Selezione Adi Design Index / Compasso d’Oro, Adi Design Index 2009 – sezione “ricerca d’impresa” per il progetto collettivo Cambiovaso, Adi Design Index 2011 – sezione “grafica” per il contenitore di cultura contemporanea Bau, Adi Design Index 2012 – sezione “design” per il tavolo Mastro, Adi Design Index 2016 – sezione “ricerca d’impresa” per il progetto La casa di Pietra, Adi Design Index 2019 – sezione “ricerca” per lo stand Styl’Editions. Sono attivi nel settore universitario con lezioni aperte, workshop e collaborazioni con la Libera Università di Bolzano, il Cried di Milano, lo Ied di Firenze e Roma, l’Università di Pisa ed il Celsius di Lucca, la Facoltà di Architettura di Genova, la Facoltà di Ingegneria di Trento; dal 2017 sono coordinatori e docenti del primo Master in Design – Innovazione e Prodotto per l’Alto Artigianato presso lo IED Firenze: Photo Eugenio Gherardi Angiolini / Alessandro Dealberto / Vittoriano Rastelli
Conversazione a cura di Rosanna Algieri, giugno 2020