Ospitiamo una interessante riflessione di Giuseppe Morando che propone uno sguardo trasversale su un paese tanto affascinante quanto difficile, complesso, sfuggente. Una lezione per gli architetti e non solo.
(1) C’è un paese in Asia, che il mondo considera in qualche modo ai margini del dibattito architettonico se si escludono poche eccezioni, come dimostrato nella Biennale di Architettura di Venezia di Alejandro Aravena: Reporting from the front e il più recente Pritzker Prize riconosciuto a Balkrishna Doshi. Egli esprime il forte legame della cultura architettonica indiana con l’avanguardia allora rappresentata da Le Corbusier e Kahn. Il premio sottolinea, a mio avviso, l’epilogo di una spinta durata per generazioni e che adesso si spegne contro l’affermarsi delle nuove avanguardie. Cosa sia successo tra le due meriterebbe approfondimenti. Questo paese è l’India e penso che, tanto alla comunità internazionale quanto alla comunità degli architetti indiani stessa, serva trovare coesione di vedute e aspirazioni per l’architettura e le città del futuro. Ne ho osservato le dinamiche, ho cercato di comprendere le logiche di un contesto dove passato e futuro coesistono nello stesso istante. Sopratutto ne ho apprezzato l’umanità che pervade ogni strato sociale. Tutto questo è custodito in immagini e note delle quali fanno parte alcuni temi relativi al fare architettura in India, al ruolo che ha nel dibattito internazionale e a quello che aspira ad avere. Esse abbisognano di una premessa: sono equidistanti sia dagli episodi di eccellenza, tanti, sia dai casi di diffusa mediocrità. La produzione architettonica di un paese si misura nel mezzo.
Per comprendere il quadro generale occorre considerare due dati, uno che descrive la situazione interna, l’altro che ha ricadute sul ruolo del paese nella comunità internazionale. Il primo, non molto incoraggiante, descrive più di ogni altro il ruolo dell’architettura. Non quella affidata alle mani e alla mente visionaria dell’architetto demiurgo, piuttosto quella guidata dall’acume degli uomini di affari. Il numero delle scuole di architettura ha subito un’impennata ormai fuori controllo, dalle 12 scuole riconosciute nel 1972 alle 463 di oggi. Questo non è incoraggiante per l’elevato numero di architetti immessi nel mercato e per la grandissima richiesta di docenti qualificati che il paese non ha e che, per le stesse ragioni, non è in grado di offrire. Il secondo dato spiega un certo interesse del mondo accademico internazionale e locale verso il mercato indiano dell’istruzione: la aumentata capacità di spesa delle famiglie medie per l’istruzione. Molte attraggono gli studenti indiani e tante cercano di aprire nuove sedi nel sub continente. Tutte guidate dagli stessi principi che spingono imprenditori e investitori locali a creare scuole dal nulla: monetizzare la richiesta di istruzione. La scuola in India è un affare enorme, considerata una vera e propria money making machine, per usare una delle tantissime lingue parlate nel paese.
E’ evidente che si tratta di un circolo vizioso che non porta alla formazione di professionisti qualificati. Inoltre ha importanti ripercussioni sociali. Gli stipendi, molto bassi, per i giovani professionisti non bilanciano lo sforzo finanziario investito nella formazione. Questa è la realtà che, allo stesso tempo, racconta delle difficoltà e delle molte opportunità di crescita e che non preclude agli architetti indiani di partecipare al dibattito sul futuro delle città globali. La comunità architettonica internazionale dovrebbe interessarsi all’India, non perchè è un paese economicamente in crescita quindi da colonizzare ancora.
L’india rappresenta il più promettente dei mercati per la forte capacità creativa delle generazioni più giovani che godono di condizioni molto favorevoli, estremamente dinamiche, che favoriscono il nascere di attività imprenditoriali con facile accesso ai finanziamenti. Un paese giovane con grandi ambizioni, molto determinato a prendersi un ruolo guida nel mondo che, a differenza di quello che ha rappresentato all’inizio la Cina, intende proporre un “Made in India” fatto di proprie tecnologie, creatività, sperimentazione. Non senza l’aiuto e il supporto dei paesi più avanzati. Oserei dire che il mondo ha bisogno dell’India, ha bisogno del contributo di questo paese al dibattito architettonico internazionale.
Non molti altri paesi possono infatti proporre un così ampio e diversificato campo di sperimentazione importante per la città del futuro. Penso al subcontinente come un grande laboratorio internazionale. Le città indiane sono duali: proiettate veloci verso il futuro, zavorrate dalle primarie necessità di sopravvivenza. Nella loro struttura urbana, nella giustapposizione di vecchio e nuovo, non è leggibile la stratigrafia culturale storica che costituisce la ricchezza delle città europee. Mancano molti strati a causa delle trasformazioni troppo veloci che non hanno lasciato il tempo al processo di sedimentazione di fare il suo corso.
Molti aspetti della città del futuro giacciono sotto la spessa coltre di inquinamento e pregiudizi comuni alle metropoli indiane ma contengono, al contempo, una enorme quantità di dati utili. Per esempio, la fitta trama di relazioni che intesse la città. E’ la controparte analogica del network digitale sul quale la fortuna delle smart cities è costruita. Logiche e ruoli autodisciplinati propongono diverse letture dell’organizzazione della città nella quale ognuno ha un ruolo preciso che determina l’equilibrio sociale ed economico. Altri aspetti, meno noti e forse meno studiati, offrono nuovi spunti. Per esempio il diffuso inquinamento visivo. Esso aggiunge una patina di disordine, instabilità, temporaneità all’ambiente urbano e riflette una certa precarietà e incuria emerse, con il diluirsi nei secoli, della nozione di bellezza. Il caos visivo è ambito sul quale l’india offre il più vasto campo di ricerca al mondo. Una ritrovata ricerca della bellezza, intesa come uno degli strumenti guida della pianificazione urbana, può restituire la stessa grandezza raggiunta durante la dinastia Mughul, per esempio, quando musica, poesia e arte inaugurarono un’era di prosperità economica per il paese.
Pensando inoltre secondo una logica più utilitarista, di quello che serve oggi per conservare il pianeta, coinvolgere l’India in modo più fattivo nel dibattito culturale internazionale è necessario.
Potremmo osservare contributi non esplorati ancora altrove. Dovremmo approfittare della sensibilità di una cultura millenaria, che sovrapposta alla nostra (sviluppata su un diverso codice di valori) e parametrata alle condizioni locali, potrebbe risultare utile ad aiutare le città di tutte le latitudini a crescere secondo un proprio modello. Se la struttura risulta verificata ed efficace nel contesto indiano, può essere, a mio avviso verificabile in qualsiasi altro contesto. (2). In una logica planetaria abbiamo tutto l’interesse che gli architetti indiani possano confrontarsi, su vasta scala, intorno a temi di urgenza progettuale. Se l’India intraprendesse una strada solitaria sarebbe un problema per l’india e per il mondo.
In una realtà iperconnessa dove la velocità di azione e reazione è immediata, avere una nazione che costruirà così tanto (ed ha già costruito tantissimo) al di fuori del quadro internazionale, rischia di avere un impatto sul bilancio ecologico globale molto alto. Ancora più drammatico, potrebbe essere l’impatto sul ruolo sociale dell’architettura già fortemente in crisi, nel subcontinente come altrove. In questo quadro di scambio, il coinvolgimento delle università si rivela un passaggio necessario, da fare oggi. Il cerchio si chiude quindi tornando alle iniziali considerazioni sull’insegnamento dell’architettura. L’università torna al centro, a conferma che tutti i processi virtuosi debbano partire dall’istruzione. La comunità architettonica Indiana dovrebbe a sua volta interessarsi di più a quello che accade nel dibattito internazionale, abbandonare il rapporto di odio e amore fatto di celebrazione dello straniero e proclamazione della superiorità della propria cultura. Dovrebbe spingere ad andare oltre la deriva nazionalista attuale che porterebbe il paese a diventare un’isola sganciata dal continente, con la presunzione che la propria storia, la propria forza, da sole, bastino per guidare il gruppo di paesi emergenti che si preparano a diventare le potenze economiche di domani. La costante ricerca di identità, nell’architettura così come nel design (ancora ad uno stato molto embrionale) da limite può trasformarsi in opportunità anche per quei paesi considerati esempi virtuosi. Quanto la ricerca di una fisionomia identitaria sia una necessaria tappa di crescita o piuttosto in contrasto con la liquidità che caratterizza la produzione architettonica mondiale, è il nodo che il subcontinente potrebbe aiutare a sciogliere. In questo mutuo interesse giace il futuro dell’architettura per l’India e nuovi percorsi che l’india potrebbe suggerire, per capacità finanziaria, diversità geografica e culturale, coesistenza di realtà molto avanzate (una su tutte l’IT) che possono supportare la crescita di altre ancora allo stato embrionale. Non ultimo per una tendenza al fare artigianale che se giustamente alimentata può portare, per esempio, alla crescita di un design made in India di grande qualità. Non è un invito per le parti alla collaborazione, è piuttosto la ricerca di inclusività a livello globale assunta come mandato. E’ l’invito ad abbandonare pregiudizi che impediscono ad un paese di imparare in modo costruttivo dall’esperienza di altri. E’ anche l’esortazione alla comunità internazionale perchè possa attribuire il giusto valore alla trasformazione in atto in un paese destinato ad essere il maggiore consumatore di energie e risorse oltre che uno dei maggiori promotori di innovazione nel futuro molto prossimo.
Note (1) Il titolo di questi appunti è un riferimento, molto azzardato e forse anche irriverente a “La Sicilia come metafora”, libro intervista di Marcelle Padovani a Leonardo Sciascia. La tesi sostenuta dallo scrittore siciliano è che la Sicilia, nel bene e nel male, può essere assunta a metafora del mondo. In questo caso l’India, con le innumerevoli variabili economiche, sociali, culturali (incluse quelle connesse al fare architettura), potrebbe rappresentare la sintesi di tutte le difficoltà, ma anche opportunità, insite nelle città del futuro. (2) Affermazione che necessiterebbe di più spazio per essere argomentata.