“E’ sbagliato pensare alla nostra società digitale come immateriale ed eterea: da qualche parte la materia c’è. Ma se impariamo a rispettarla e non la trattiamo come scarto, allora parlerà alle nostre idee, risveglierà la nostra progettualità, inciderà sulla nostra scala dei valori. Facciamo politica con la materia.” Ingrid Paoletti, Siate materialisti!; Einaudi
Introduzione a cura di Pino Scaglione, Professore dell’Università di Trento; “Introduco questo pomeriggio di riflessione, che ha titolo Università e Pandemia, una questione attuale, che tutti abbiamo, in modo diverso, affrontato da docenti, studenti, nelle famiglie, nella società, e direi persino subìta! Ci siamo trovati nel mezzo di una emergenza che ci ha costretti ad adottare misure immediate -e non sempre efficaci- che tuttavia ci hanno consentito di proseguire le nostre attività. Ma consentitemi, prima, dire qualcosa su chi siamo: Riagita è una giovane Società Scientifica, di interesse nazionale, che nasce esattamente un anno fa, durante il lockdown, dall’interesse comune mio e di due colleghi architetti, Vincenzo Corvino e Raul Pantaleo, che in quattro seminari, denominati Acceleratori di Pensiero, ha visto confrontarsi, tra fine aprile e maggio 2020, artisti, architetti, sociologi, scienziati italiani, sul cambiamento che la Pandemia ha imposto alle nostre città, all’abitare, al vivere. Questo di oggi è il primo di una serie di Acceleratori di Pensiero, cui seguiranno ancora altri su “L’altra urbanistica”, “Architetti dopo l’Architettura”, “Design al Sud”, e due dedicati alla redazione di una “Carta per la Transizione Ecologica Urbana” a Brescia e a Favara, che sarà poi presentata a Roma in autunno. Io ho il ruolo di Presidente di Riagita, con me lavorano alle attività Giulia Floriani, Vice Presidente e Rosanna Algieri, Segretaria, che dividono oneri e onori. Ci supporta in queste attività, l’esperienza di un prestigioso Board Scientifico, nato nei primi appuntamenti, e per la comunicazione il nuovo magazine “disegnoallitaliana”, piattaforma web, da giugno con la prima uscita cartacea, oltre ad una rete di docenti, architetti, ricercatori sparsi in Italia e fuori che stanno aderendo alla Società. Il seminario di oggi riflette, a distanza di circa un anno, su come e in che modo ci siamo organizzati, tutti, nel mezzo della Pandemia, con quali modalità abbiamo reagito, abbiamo proseguito nelle nostre vite quotidiane e nel nostro lavoro, soprattutto come un servizio primario, come quello della formazione universitaria è potuto proseguire senza perdere di efficacia.
Ma alla luce di questa esperienza, anche dei momenti difficili e drammatici vissuti, ci siamo anche resi conto di quanta importanza ha avuto nelle nostre vite l’aver cambiato totalmente modelli di formazione e apprendimento, di lavoro, di relazioni. Modelli dai quali sarà molto difficile, come vediamo ora e vedremo, poter tornare indietro. C’è un’ampia letteratura giornalistica, alcuni saggi recenti, che hanno posto l’attenzione sul tema della didattica in remoto, soprattutto per le scuole medie e i licei, questi ultimi con l’abusata DaD (Didattica a Distanza), da cui emerge si un certo disagio, ma anche il ruolo delle università che hanno avuto il compito, importante, di trasferire la maggiore, difficile complessità del sapere universitario, delle molte aree disciplinari, dei diversi laboratori, degli esami, delle lauree, su piattaforme digitali. Una sfida, titanica senza subbio, che ad oggi non sembra aver messo in difficoltà gli atenei, ancora meno quelli telematici che avevano già un know-how consolidato, atenei che si sono organizzati in breve tempo e hanno brillantemente superato la prova. Il seminario di oggi fa quindi perno proprio sulle esperienze più difficili come quello delle discipline del progetto, che si muovono sul doppio binario teoria-prassi, e che hanno sperimentato, nella maggiore parte dei casi con successo la formula della formazione in remoto. Progettare -città, architettura, design, paesaggio- ha viaggiato su nuovi strumenti e modalità di trasmissione, e si è scoperto che il digitale non è poi questo “mostro” come molti colleghi lo hanno, impropriamente, definito, anche per avere potuto usufruire di una serie non secondaria di vantaggi, per i docenti, con spostamenti ridotti, orari flessibili, più tempo libero, meno costi, e per gli studenti e le famiglie che hanno goduto di significative condizioni in analoghe direzioni. Ci si presenta, oggi, e ancor di più nei prossimi mesi e anni, un’occasione per ripensare nel suo insieme, non solo la modalità di insegnamento e i nuovi mezzi tecnologici, bensì il riprogettare l’organizzazione delle università italiane che scontano un inammissibile ritardo verso il resto d’Europa, pur con talento e capacità non secondarie in esse presenti, per le difficili condizioni del ruolo della ricerca e per l’arretratezza dei modelli, nonché un peso burocratico schiacciante! Di recente, una delle posizioni più interessanti è del rettore del Politecnico di Milano, Ferruccio Resta, il quale ha scritto che occorre arrivare ad una offerta formativa in cui, oltre alla mixitè del remoto-presenza, si offra allo studente l’università come luogo di scambio e crescita, di confronto e ibridazione del sapere.
Oggi ne discutiamo con alcuni ospiti, ai quali abbiamo chiesto di raccontare la loro esperienza di docenti, così come di esprimere una posizione sul presente e sul futuro di queste scelte, e iniziamo con Elena Granata, docente al Politecnico di Milano e vice presidente della Scuola di Economia Civile, architetto-urbanista suigeneris, poi seguiamo con Mosè Ricci, docente di Architettura e Urbanistica presso l’università di Trento, le cui posizioni sul rinnovamento dell’università e della formazione di architetto sono da tempo note, Pierluigi Sacco, docente di Economia della Cultura e delle Arti alla IULM di Milano, che ha già preso parte ai nostri Acceleratori di Pensiero, Dario Braga, docente di Chimica all’università di Bologna, Presidente dell’Istituto di Studi Superiori, Enzo Siviero, Rettore di Uni e-Campus e già prestigioso docente dell’IUAV, e Carlo Ratti, docente di Urban Design al MIT di Boston. Ci saranno anche alcuni brevi interventi da pubblico, tra la prima e la seconda, parte, ma cominciamo subito, ringraziando voi tutti per aver accettato il nostro invito, il pubblico che partecipa e dando la parola ad Elena Granata!(estratto dall’introduzione)
Elena Granata, Professore del Politecnico di Milano; “Buon pomeriggio a tutti e grazie di questa preziosa occasione. Ricordo, un anno e mezzo fa, lo sbigottimento di fare un corso di urbanistica, condivisa ovviamente anche con altri colleghi, senza poter andare a vedere i luoghi, poter uscire dall’aula, poter fare gruppi di lavoro e vedere gli studenti: ecco penso proprio alle primissime ore dell’avvento della pandemia e della didattica in remoto, in cui tutto è stato vissuto come una mancanza. Però, dopo un anno e mezzo, e caspita si tratta di un bello spazio di creatività ed innovazione! Vorrei aggiungere, anche con un pizzico di polemica, perché parliamo, con lealtà, anche di cattedre che ci hanno tolto sotto il sedere, -perché ci siamo trovati qualcuno con più agilità- a dover inventare la didattica. Quindi a fare a meno, fare diversamente: nel mio caso ad esempio, pur avendo una didattica già molto creativa, la nostra aula di 50 studenti in un laboratorio già abbastanza interattivo, che negli ultimi anni è stato decisamente di più, quindi si è spinto l’acceleratore sul protagonismo degli studenti e su una maggiore autonomia nel compito, nel mandato, una maggiore autonomia anche di tornare a lavorare nei territori dove i miei studenti sono rimasti, la dove, per tanti anni, non ci siamo sbigottiti rispetto al fatto che Milano ha drenato studenti da tutto il resto d’Italia. Forse perché ci sembrava normale che il 40% degli studenti calabresi lasciasse la loro terra per studiare a Milano, ci sembrava normale, ma non lo era normale. Oggi cominciamo a capire che forse pensare in maniera più reticolare, più coordinata con la possibilità che gli studenti restino nei territori, nelle regioni di appartenenza, dovrebbe essere qualcosa di innovativo. Il mio rettore, Ferruccio Resta, ha fatto qualche affermazione anche qualche passo in avanti su questo aspetto, peccato non averlo con noi stasera, ma la questione si pone con evidenza, perché la meglio gioventù di un certo sud noi l’abbiamo depredata, per attirarla verso nord, e allora guardate come in questo “non poter fare” causato dalla Pandemia, si sono aperte delle potenzialità. Quindi, un primo punto è quello che poter fare diciamo “fifty-fifty”, ossia modalità digitale e in presenza, trovo che sia molto ricca come opportunità di alternare i due linguaggi, le due modalità relazionali e formative. Un secondo punto, che invece afferisce più al contenuto, è che molte delle cose che oggi ci troviamo ad insegnare non le sappiamo! Non le sappiamo perché se siamo onesti, sappiamo che siamo attraversati dai cambiamenti climatici, dall’ evoluzione delle nostre città, da un cambiamento epocale e qualcuno dice il virus è il vero Urbanista, e quindi da cambiamenti che stanno attraversando profondamente il nostro mondo a livello locale e planetario. Così scopriamo finalmente, e ancora una volta che qualcuno ci ha tolto la sedia da sotto il sedere, e che le cose che non sappiamo sono molte di più di quelle che sappiamo. Stuart Firestein, ha scritto un libro, qualche anno fa, sul valore dell’ignoranza rendendosi conto, da neuro scienziato, che potenzialità ha il docente che vi si dedica, infatti ha aperto una serie di laboratori alla Columbia, con corsi sull’ignoranza e quando solo il docente parte da quello che non sa, parte dalla sua anima di ricercatore, quindi da quella curiosità intrinseca che ci ha fatto un giorno benedetto nella nostra vita decidere di fare questo mestiere che non è soltanto insegnare, ma è anche quello di cercare, cercare, conoscere e Firestein notava una cosa che tutti noi accademici abbiamo sempre notato, se siamo onesti, che i nostri studenti -pensa Filippo!- quando arrivano il primo giorno di università, il primo anno di università, sono curiosissimi di ogni campo del sapere, e poi nel corso dei cinque anni restringono vertiginosamente le loro curiosità. Firestein dice che sanno sempre meno di quando sono arrivati, e io ho questa sensazione coi miei studenti, di dire cosa abbiamo fatto nei 5 anni vi ho incontrati: il primo anno che eravate aperti di mente, siete stati bravi, poi siete diventati degli specialisti; ecco questo che lo specialismo sia uno dei problemi più grossi delle nostre carriere, qualcosa a cui io non vorrei sottostare. Non vorrei tornare, e per dirla con Firestein, possibile che ad esempio le scienze e la tecnica sono amatissime nei primi anni delle scuole, delle primarie, e poi piano piano c’è un disinteresse che cresce, e allora sempre di più se partiamo onestamente dal fatto che le cose che non sappiamo di questo mondo sono più di quelle che sappiamo, l’aula diventa uno spazio di co-produzione di sapere, di co-produzione che vuol dire che noi dobbiamo -ed è qui la fascinazione dell’insegnamento contemporaneo- non costruire solo dei contenuti, ma costruire teste ben fatte. La testa ben fatta e quell’intelligenza connettiva che sa far mettere insieme i pezzi della contemporaneità e allora vuol dire dare ai nostri studenti la capacità di connettere, collegare l’analogia, il salto creativo, ecco questa è la materia su cui rifondare la disciplina del progetto, e l’ha scritto benissimo Alessandro Melis, qualche mese fa: se noi capiamo che l’insegnamento e l’arte delle connessioni, cambia molto il nostro ruolo di docenti, perché dalle elementari all’università eviteremo di riempire la loro testa come fossero dei tacchini! Il mio terzo punto riguarda come perdiamo intelligenze: ci capita sempre di più, soprattutto in Italia, non so se all’estero accada la stessa cosa, che vediamo gli studenti al primo giro, poi dopo li perdiamo. Vanno a fare il Master all’estero, alla Sorbona, Londra e poi magari tornano per una seconda laurea, dopo li vediamo come dei novelli Ulisse, rientrare nel nostro paese, magari intorno ai 30-35 anni e aprire delle imprese, imprese soprattutto di architetti, antropologi, urbanisti, dentro un lasso di tempo in cui si sono dispersi a fare cose naturalmente bellissime, e in giro per l’Europa e il mondo. A un certo punto della loro vita tornano, recuperano un casale, aprono un’attività economica, diventano imprenditori sul territorio, ed è ciò che nel mio prossimo libro chiamo l’attività di “playmaker”, il fare in proprio, la re-invenzione dei luoghi. Ecco, dunque, la mia domanda onesta è: ma questi ragazzi dobbiamo proprio fargli fare questo giro di 15 anni, per poi dargli gli strumenti per diventare imprenditori di un’attività che gli consentirà di vivere? O forse l’università, oggi, deve rimettere insieme quel binomio, fondamentale dal 1200, del “sapere utile/sapere sapiente”, cioè quel sapere sapiente che è la cultura, ma quel sapere utile che quando esci dall’università sai mettere in piedi un’impresa, e qui ovviamente viene tutta la mia parte della Scuola di Economia Civile. Un paio di settimane fa, con Luigino Bruni, abbiamo fatto un incontro con una cinquantina di professori che insegnano economia, oggi il problema dell’economia è passare l’idea del bene comune, dell’economia di territorio, delle questioni ambientali, ma nelle scuole di economia questo non si insegna, e nelle scuole di architettura che cosa si insegna? Troppo spesso ancora a fare la casa per l’artista o la palazzina con il cappotto, e dunque capite che c’è uno scollamento assoluto tra quello che noi insegniamo e quello che i nostri ragazzi andranno poi a fare. Chiudo su questo punto: il 2020 è stato un anno fondamentale, non per la pandemia, ma per un altro fatto che forse è passato un po’ sottotraccia, in silenzio: una importante ricerca di colleghi israeliani, sul network globale, dice che per la prima volta nella storia dell’umanità la biomassa, l’elemento naturale che l’uomo e l’umanità si sono trovati in dotazione, è stato superato dalla massa antropica! Che cosa vuol dire -lo dico sempre a Filippo-, che le cose costruite dall’uomo, le macchine, le autostrade, i frigoriferi, la meccanica, tutto quello che l’uomo ha inventato e realizzato, in termini di volume, dice che stiamo belli ingombranti, e che messaggio dà agli urbanisti, architetti, progettisti? Un messaggio molto forte, che forse ci riporta -il cross del prossimo appuntamento degli Acceleratori di Pensiero- agli architetti dopo l’architettura, al fare architettura senza costruire, o addirittura usare tutti quei termini che ci deprivano del nostro know-how. Quindi dobbiamo formare una generazione di architetti che “dis-urbanizza”, “de-cementifica”, “de-costruisce”, che demolisce, che ripristina ecosistemi, rigenera tessuti urbani, e voi capite però con tutte queste tematiche con il prefisso “ri” e “de”, dobbiamo riscrivere la grammatica delle nostre Accademie, perché ovviamente nulla dell’impianto delle professioni e delle strade formative che portano, appunto, ad essere costruttori, ingegneri, urbanisti, architetti va in questa direzione. Elizabeth Diller lo diceva con una battuta fulminante: “bisogna proteggere i luoghi dall’architettura” e nella sua radicalità dice una cosa molto stimolante, se ci lasciamo veramente attraversare da quello che non sappiamo, da quello che non abbiamo potuto fare da quello che non vogliamo più fare, beh io penso che si apra un periodo di grandissimo stimolo progettuale: pensare il progetto, l’architettura, l’urbanistica, senza le “cose”, e qui Carlo Ratti che è un Maestro da tantissimi anni, perché ha “de-materializzato” l’architettura, e l’ha fatto tra i primi in Italia, ci rimanda a delle implicazioni molto forti, perché immaginiamo di poter costruire una figura che sarà più simile al play-maker, quindi all’inventore, l’immaginare di essere autore di luoghi, che è molto lontano dall’architetto e dall’ingegnere, dall’urbanista come l’abbiamo profilato nei codici della nostra Accademia, ecco mi fermo qua!” (estratto dall’intervento)
Mosè Ricci, Professore dell’Università di Trento; “… Ogni progetto quindi e una nuova avventura come Pino Scaglione ha appena scritto in un suo libro “Avventure del Progetto”, quindi il tema che Elena ha sollevato, proprio questo dell’incompetenza, una digressione come tema reale, perché dentro le nostre università dobbiamo insegnare a pensare da architetti, a progettare, formare professionisti. Io insegno sia progettazione architettonica che urbanistica, quindi mi muovo proprio in questo campo, ma sono molto preoccupato di quello che gli studenti imparano, perché credo tutti quanti noi, dopo la laurea, ci siamo sentiti impreparati alla professione, al progetto vero, al confronto. Cosa si deve fare però per rimediare non lo so, ma parzialmente nei miei laboratori, da alcuni anni, sviluppiamo un concorso internazionale dove gli studenti possono veramente iscriversi e progettare con una committenza vera. Dobbiamo sempre ricordare che il 70% dei laureati in architettura non lavorano nel campo della progettazione architettonica, fanno altro, per esempio l’88% sono impiegati dopo il primo anno, in Italia, ma all’estero però il 70% non fanno gli architetti. Il progetto si impara facendolo, bisogna confrontarsi con altri che propongono idee di miglioramento per una condizione urbana-architettonica. Ma torno alla questione di oggi: nel periodo pandemico non è stato così male insegnare via Zoom, anzi l’anno scorso nelle critiche degli studenti -su cui sono sempre molto scettico- però sono state molto lusinghiere pur essendo stato il corso tutto da remoto. Qualcuno ha scritto “ma se si potesse fare sempre così l’università come avete strutturato voi il corso si risparmierebbero tanti soldi, non dovremmo prendere un appartamento a Trento, non dovremmo costringere le nostre famiglie a spendere tanto, eccetera…” Allora è chiaro che questo non funziona solo in remoto, perché nei laboratori di progettazione non essendo in presenza quello che si nota di più è la mancanza dello scambio di cultura tra gli studenti, perciò i gruppi che tendenzialmente sono più deboli tendono a diventare tali, mentre i gruppi che sono più forti tendono a ad aumentare il distacco. Quando si è in presenza c’è uno scambio maggiore, si guardano fra di loro, si copiano, si crea insomma -anche discutendo, prendendosi una pizza, un tramezzino al bar- cultura e confronto, quindi non sono convinto che l’università sia la stessa cosa da remoto. In presenza o da remoto, comunque non sono neanche convinto del contrario, cioè che si debba fare solo in presenza, sono certo una modalità “blended”, non nel senso che alcuni stanno in classe alcuni stanno fuori perché questo genera un casino tremendo, ma con una modalità in cui alcune parti del corso possano essere tenute da remoto e una parte in presenza, andrebbe sperimentata non solo per il Covid. Non credo nemmeno che il Covid sia l’urbanista vero, penso che sia un acceleratore di questioni che sono alla base di un cambiamento necessario del nostro modo di pensare l’architettura, della città, del desiderare il futuro, una parola molto legata ad un’idea di ‘900, di proiezione della qualità della vita in una forma fisica. Questo ci permette di proiettare nel digitale molti più desideri che del mondo fisico, rimanendo un pò come siamo, comodamente legati alla tradizione e alla storia, una narrativa che il digitale non sa darci. Penso dunque che ci siano alcune questioni dirimenti: tra cui la rivoluzione e la crisi ambientale, che Elena ha citato, dai cambiamenti climatici, alla necessità di mitigazione e di adattamento all’inquinamento, quello che ci sta succedendo che non può non travolgerci, ma anche coinvolgerci come esperti della progettazione, del cambiamento negli assetti del mondo fisico, un paradigma con un punto di vista sul futuro ecologico che non possiamo ignorare, perché se lo ignoriamo siamo fuori dal gioco, in una stanza di specchi che è l’università in cui parliamo di tipologie, di cose interne alla logica stessa dell’architettura, come se fosse una scienza assoluta e non invece una scienza sociale. Di relazione architetti-urbanisti che devono pensare un mondo più felice e più bello, molto banalmente, la bellezza della felicità del nostro habitat, due cose che non sono slegate e dobbiamo imparare a farlo. Quindi, la crisi ambientale secondo me è un punto di vista sul domani, quello ambientale che dobbiamo necessariamente assorbire all’interno del nostro modo di guardare, di pensare al progetto, e poi un’altra è la crisi economica, cioè più l’economia finanziaria, prima ancora quella industriale, sono entrate fortemente in crisi, c’è stato un boom della costruzione tra il 1997 e il 2012 abbiamo costruito 300 milioni di metri cubi l’anno. Se usiamo il parametro degli standard urbanistici, scopriamo che c’è una città come Roma ogni anno depositata sul territorio italiano, a fronte di un aumento di popolazione zero, anzi di decremento. Il che vuol dire che abbiamo censite nove milioni di immobili vuoti, e non sappiamo quanti non censiti, quindi come facciamo a dire che il compito dell’architetto, dell’urbanistica è ancora di costruire il nuovo, e non di rigenerare il vecchio, l’esistente, non di usare l’esistente come materiale da costruzione, anche perché altro materiale non è concesso. Se ci si lega a questa crisi ambientale, e ci dobbiamo concentrare assolutamente su questi temi, forse per tre generazioni non ci sarà da costruire nulla. E io non sto negando la costruzione del nuovo, però sto negando che porti qualche competenza, sia in campo culturale che in campo tecnico-scientifico: fare la casa della zia, del poeta che abita sulla riva del mare a Lipari, diciamo non ha nessun valore, mi spiace e non mi sento di insegnare questa roba, mi sento di insegnare come si interviene sulla città che esiste, per farla rivivere, rigenerare, per modificarla, per farla anche bella. Credo che quello che ci hanno insegnato Brunelleschi, Palladio, ieri, o Maria Giuseppina Grasso Cannizzo, oggi, -architetto di straordinario valore-, per la quale è importante lavorare sull’esistente, ed è produrre bellezza anche sulle rovine!” (estratto dall’intervento)
Pierluigi Sacco, Professore dell’Università IULM, Milano; “Buon pomeriggio, come è stato già detto mi trovo in una posizione un po’ anomala, perché non sono urbanista né architetto, anche se come ha detto Pino Scaglione, ho insegnato per tanti anni ad architettura presso l’IUAV, ho diretto un dipartimento di Design e Arti, quello che mi viene chiesto di insegnare all’università con lezioni di tipo frontale, perché le materie che normalmente mi trovo ad erogare come quest’anno, Economia delle Arti e della Cultura, oppure Storia della Cultura del Made in Italy, sono chiaramente discipline del Design, materie che tendono a essere insegnate con modalità tradizionali. Ma vi dico la verità io ho sempre sofferto molto il fatto che nella classica situazione d’aula, tutto sommato per quanto uno volesse incoraggiare e potesse incoraggiare una dimensione di interazione, questo era particolarmente difficile, soprattutto quando si avevano classi relativamente grandi, con un’aula con 100 o 120 studenti. E mi chiedevo come poter interagire in quel tipo di situazione, peraltro se capitava, a volte, che qualche studente facesse delle domande troppo ripetute, insistenti, si creavano delle dinamiche che non aiutavano molto la collaborazione. Quindi personalmente, pur avendo sempre insegnato, non ho mai particolarmente apprezzato le forme tradizionali di interazione d’aula per come ci veniva proposta, per chi insegna materie “povere” soprattutto teoriche, credo perciò sia utile partire da quanto accaduto con la Pandemia, con la possibilità di insegnare in questo nuovo contesto, che per me è stata una rivelazione. Non vi nascondo che il primo giorno, nel pieno della pandemia ormai più di un anno fa, mi sono trovato di fronte una paginata Team, fatto di tasselli anonimi, non vedevo neanche gli studenti, la prima schermata l’ho guardata e mi sono detto “non ce la farò mai!”… Come si fa a insegnare così? Parli a dei muti? Anche considerando che quelli erano giorni difficili, le prime lezioni che ho fatto le definirei sinteticamente, a bassa energia, cioè quelle lezioni che fai perché le devi fare, ma dove veramente fai anche fatica a trovare una motivazione, non capisci bene cosa stia succedendo, soprattutto non capisci chi hai dall’altra parte dello schermo, e come possa vivere questa esperienza, come possa trovarla interessante. Io mi sentivo in quel momento davvero diminuito improvvisamente, mi dicevo perché stavamo in aula in quel modo, però poi è scattato qualcosa e su questo scatto vorrei soffermarmi. Mi sono improvvisamente iniziato a rendere conto che, a conoscerlo, questo nuovo mezzo, aveva delle caratteristiche che l’interazione d’aula non ti permettevano, e vi faccio l’esempio banalissimo, di essermi chiesto quali fossero le potenzialità latenti che non avevo utilizzato. La prima che mi viene in mente, è l’essermi accorto che tutte le interfacce hanno una chat, e tutti l’abbiamo imparata ad usare, per le centinaia di webinar che abbiamo fatto da quando è cominciata tutta questa vicenda, ma ancora prima. La chat è una caratteristica estremamente interessante che permette agli studenti di commentare, fare domande, porsi questioni senza necessariamente sentirsi costretti a interrompere il flusso del tuo percorso, cosa che molto spesso è un freno. Allora cosa è successo? Non so neanche bene quale sia stata la dinamica effettiva, se partita da me o dagli studenti, fatto sta che nei corsi, soprattutto quest’anno, è la prima volta che tutto scivola via cercando di imparare, e barcamenarsi nella la nuova situazione, ma quest’anno è scattato qualcosa e ho iniziato a utilizzare, proprio consapevolmente come strumento didattico, la chat per creare una vera e propria dinamica di co-creazione della lezione con gli studenti. Coinvolgendo i ragazzi su cosa avremmo fatto la prossima volta, parlando di questo e quest’altro tema, insomma fatevi un’idea anche voi e lavoriamo insieme, quando io parlo intervenite, fatemi domande, sollevate i dubbi, le curiosità. Così, in tempo reale, attraverso la chat e ovviamente l’interazione da remoto con gli studenti, il flusso della lezione lo abbiamo scelto e determinato insieme, senza precludere la possibilità per gli studenti di intervenire direttamente quando si fossero resi conto che l’intervento sulla chat non era adatto per mille motivi o non era sufficiente. Gli studenti hanno cominciato ad intervenire direttamente, e ho iniziato a divertirmi facendo lezione come non mai fatto prima e soprattutto visto la risposta dei ragazzi che è stata eccezionale. Dare agli studenti questa possibilità, responsabilizzarli proprio nel decidere insieme la piega del ragionamento, quali temi affrontare, che questioni porre, assicurava un livello di coinvolgimento che ha ribaltato la logica di un corso classico di lezione frontale…” (estratto dall’intervento)
Interventi dal pubblico: Filippo Serena, studente dell’Università di Trento; Dall’inizio di questa esperienza, mi sono subito lanciato con entusiasmo, perché mi è parsa una grandissima opportunità che avevamo già avuto durante il corso dell’anno passato, occasione di incrociare. Abbiamo contribuito anche noi studenti agli “Acceleratori di pensiero” della Società Scientifica Riagita, leggendo e lavorando sui testi dei vari autori, e abbiamo avuto la possibilità di sentire voci nuove, pensieri diversi anche molto lontani dal nostro specifico disciplinare. Questo di oggi ci riporta un pò a questa condizione in cui ci siamo trovati anche noi studenti, una situazione che ci ha allontanati, ma ci ha avvicinato a persone lontane che non avremmo avuto occasione di incontrare, con Zoom o Meet, e che tutti questi sistemi per le lezioni in remoto, hanno potuto garantirci. La nostra esperienza è formata da molte emozioni differenti anche contrastanti fra loro: da un lato, tra noi studenti, ho visto serpeggiare una certa rabbia e frustrazione perchè ci siamo sentiti ignorati dalla città, dalle forze politiche del nostro paese, siamo stati lontani dalla discussione di cui eravamo protagonisti, si è parlato poco o niente dell’università. Enrico Mentana ha scritto che sono stati trattati un pò da burattini e trascinati quà e là, senza darci mai delle risposte chiare, un pensiero abbastanza condivisibile. Però non voglio essere solo critico, perché noi studenti, parlo anche a nome di tanti colleghi, amici, non siamo stati solo critici, anche spesso addirittura accusati di essere un pò egoisti, e che difronte ai problemi non facciamo molto, invece io ho visto tanta voglia di provare, di affrontare questa nuova situazione con spirito di iniziativa, con voglia di fare e partecipare, come emerso dal racconto del professor Sacco. Quindi è illuminante per noi vedere come effettivamente è stata recepita la voglia di alcuni studenti -o a volte anche la non voglia- di provare, adattarsi a questa situazione, sfruttarla il più possibile, coscienti che la pandemia ha cambiato innanzitutto il nostro modo di vivere l’università, e così abbiamo capito le cose che vanno, che sono interessanti, e che infatti, come ho già sentito, potremmo, dovremmo anzi lavorarci di più, sia come docenti che studenti.
Renato Capozzi, Professore dell’Università Federico II di Napoli; Non ringrazierò nessuno per questa occasione, non è mio costume, provo invece a dire alcune cose su quello che faccio, sulla mia esperienza, e anche se sicuramente ognuno rimarrà con la propria idea sulla tematica, proverò a convincere qualcuno. Io insegno Composizione Architettonica Urbana, non progettazione architettonica, non teoria della progettazione, quindi non qualcosa che ha a che vedere con una pratica sociale, con una scienza umana, ma sull’arte del comporre, per insegnare il comporre bisogna far vedere come si fa, non c’è altro modo. Bisogna costruire con gli studenti, che anche qui non chiamerò mai e poi mai ragazzi, perché li offenderei e mi offenderei se fossi uno studente essere chiamato ragazzo. Quindi costruire una sorta di cimento, far vedere come si fa a quelli che vogliono imparare l’arte del comporre e quindi dedicare tutte le mie e loro energie a cercare di capire quali sono le tecniche per il comporre, e per fare questo lo strumento che noi stiamo usando oggi, per via telematica, è inadeguato, anche se molto utile per fare le lezioni teoriche, per raggiungere persone di qualità e averli a lezione perché l’università pubblica italiana ha risorse scarse. Ai fini della costruzione di un’abilità consapevole che una pratica artistica come quella dell’architettura richiede, bisogna costruire un confronto in presenza, bisogna far vedere come si disegna, bisogna imparare a disegnare, bisogna imparare a controllare lo spazio, e di questi percorsi bisogna avere esperienza diretta, simpatetica, occorre inventiva per non creare niente, ma inventare per inventare, bisogna provare, e per farlo bisogna avere un confronto de visu. Chiudo, chè non voglio essere molto lungo, e poi sono qui per ascoltare, ma ribadisco che la cosa importante dell’università pubblica italiana, a cui tengo moltissimo, contro le università private, telematiche, è che ci sia il confronto, diretto tra gli studenti e i docenti, continuo e serrato in cui lo studente parla delle sue esperienze e anche i docenti. Una cosa inevitabile e insopprimibile dell’università, altrimenti è qualcosa per corrispondenza, quindi il mio punto di vista, molto radicale, lo espongo con rispetto, -anche come membro-consigliere di una società scientifica, che dice le cose, ma non le fa, vorrebbe farle, ma non ci riesce-, concludo dicendo che ho visto tanta, tanta voglia di adattarsi, di non mollare davanti a queste difficoltà, a queste situazioni molto avverse, così rinnovo le mie congratulazioni per i vostri contributi le vostre interessantissime opinioni.
Marcello Panzarella, già professore di Composizione Architettonica e Urbana, Università di Palermo. IN BELLEZZA; Elena Granata ha posto al centro del suo intervento la questione ambientale, in qualche modo suggerendo che i modi in cui fin qui si sono intesi l’architettura e il suo insegnamento debbano essere decisamente superati. Io ho insegnato per quarant’anni Composizione Architettonica e Urbana, un aspetto, una sezione del sapere disciplinare dell’Architetto che – teniamolo a mente – costituisce, come ogni materia d’insegnamento, uno dei tagli del sapere specifico tanto artificiali quanto indispensabili alla didattica, tutti quanti insieme concorrenti, nella sintesi personale dell’apprendimento, al conseguimento della piena capacità di esercizio delle attività di progettazione. La quale è tutt’altra cosa, tanto più ampia e sostanzialmente differente dalla Composizione per compiti e obiettivi, anche se, per quanto diversa per natura e complessità, resta comunque intrecciata con la prima, contenendone i passi al proprio interno, in modo sempre inestricabile. Da progettista, e da docente di Composizione dell’Architettura, non posso non registrare, con sconcerto fortissimo anche se con curiosità obbligatoria, quelle sollecitazioni a sciogliere un sapere disciplinare così fortemente caratterizzato e di tradizione più che millenaria qual è l’Architettura, nel campo più vasto dei saperi ambientali, molto più vago, variegato, e di sperimentazione incomparabilmente più recente. Il dubbio è che si sappia bene di che cosa si parli su un certo versante, ma non altrettanto dall’altro, e che non si abbia consapevolezza adeguata delle conseguenze – concettuali ma anche molto materiali –di un accoglimento irriflessivo di quei suggerimenti. La Composizione, d’altra parte, non appartiene e non serve solo all’Architettura, e – per tante altre discipline – costituisce uno strumento comunque indispensabile a dotarle di consistenza. Allo stesso modo, la Progettazione è un modo del pensiero e uno strumento molto generale per l’approccio alla realtà e al suo trattamento; uno strumento operabile, praticabile, utilizzabile all’interno di un campo vasto, che certamente contiene anche l’architettura-urbanistica, ma la trascende. In qualunque campo è necessario saper governare la complessità; il metodo del progetto, che è processuale, si conferma, oggi ancora più che in passato, il più adatto a interagire con un mondo divenuto sempre più complesso, molto di più di quanto non lo fosse al tempo in cui diversi di noi siamo nati, ben prima dello scadere dello scorso millennio. Nel mondo sono avvenuti da allora una quantità di fatti che interagiscono tra loro sempre di più, e che richiedono crescenti capacità di governo strategico. Sarebbe questa una buona ragione per auspicare, per promuovere, la diluizione del corpo di una disciplina come l’architettura, che sul governo della complessità si fonda attraverso il ricorso costante al metodo del progetto? O non sarebbe giusto esattamente il contrario? Non sarebbe anzi il momento di accorgersi che è quasi solo nel campo dell’Architettura che il metodo del progetto è coltivato, escusso, sezionato e ricostruito nel modo più ampio e frequentato? Proprio in quanto progettisti, capaci di utilizzare contemporaneamente il microscopio, il cannocchiale e il grandangolo, e di interloquire con i saperi più differenti, possiamo guardare a questo mondo tanto più complesso con un occhio più acuto, allenato alla scoperta e all’istituzione di relazioni nuove e necessarie; ne siamo perfettamente in grado fin da quando abbiamo dovuto imparare a modificare con ogni cura un pezzo di mondo anche minuto, considerandolo sempre parte del tutto, anche oltre il limite del visibile; sappiamo farlo e dunque dobbiamo farlo, anzitutto in quanto architetti ma poi anche come cittadini del mondo; per questo doppio ruolo, ma soprattutto per quella dotazione di capacità di governo della complessità, e di tessitura di relazioni e interlocuzioni, credo sia anche necessario porre una questione nuovissima dentro le questioni più nuove: abbiamo già capito – in Occidente e altrove – di trovarci ormai di fronte a un processo grave di distruzione degli equilibri naturali del pianeta; un processo certamente trascurato ai suoi inizi, qualche secolo fa, ma ormai sempre più evidente e incontestabile. Abbiamo capito che non può continuare così. Noi stiamo su questo pianeta da architetti, ossia come persone che sanno modificare il mondo con il progetto, e certo non possiamo rinunciare a questo ruolo; ma dobbiamo capire come, dove intervenire, con una consapevolezza nuova, che però non può più limitarsi a imparare e a indicare come modificare il mondo senza distruggerlo. Perché la semplice consapevolezza di tale limite, reale, effettivo, nel momento in cui diviene proposito, e poi direttiva, cela comunque un inganno, un rischio, in quanto il punto di vista conta, e nel caso è anzitutto quello che guarda da Occidente, cioè da una parte del mondo che per quasi tre secoli ha beneficiato di acquisizioni, conquiste, comodità, e di tutto ciò il cui godimento ha portato alla crisi ambientale e climatica attuale. Siamo certi che oggi possiamo imporre delle politiche di rinuncia estrema anche a chi di queste comodità, di questi livelli di vita, non ha mai goduto? O non dovremmo cercare di riequilibrare le opportunità di salute, di benessere, di studio e di intrapresa, e garantirne la distribuzione più equa? Come ripagare e come risarcire la più gran parte del genere umano alla quale si chiederebbero invece nuovi sacrifici? Come conseguirne comunque la crescita? Come non impedirla a quanti fin adesso sono stati conculcati? Questa è una questione da cui non si scappa, e la consuetudine col progetto vi risulta ancora più centrale e necessaria, per la capacità strategica che esso contiene e per l’incertezza che costituisce sempre il territorio che il progettista è abituato a percorrere, senza asserire ma sempre discutendo, sempre ascoltando e sempre interloquendo. Non si tratterà solo di provvedere riparo al genere umano, ma di progettare l’intera superficie del pianeta come casa comune dell’umanità e degli altri esseri viventi. Quando serve, anche per l’artista e col cappotto. In bellezza.
Dario Braga, Professore dell’Università di Bologna; Grazie dell’invio a Pino Scaglione, ma volevo concentrarmi un pò sulle differenze, e richiamare la vostra attenzione intorno ad una visione un pò più globale delle problematiche dell’insegnamento nel corso della Pandemia, e non posso, ovviamente, che riflettere la mia esperienza di docente da quaranta anni, in questa sorta di odierno “mega torneo”, dove diverse discipline sono rappresentate, incluso e soprattutto l’architettura, che mi riporta ai miei amici e colleghi di Bologna di un Dipartimento molto significativo. Dunque, intanto non esiste una ricetta unica, e forse vi dico una banalità, però un’università che non preveda il lavoro diretto dello studente, della studentessa, con gli strumenti di laboratorio, con le cappe, le provette, non esiste! Quindi, certo nel momento della pandemia più acuta, del lockdown, in queste aree tanti colleghi si sono dati da fare, maniche rimboccate, e tutti abbiamo imparato a fare dei mestieri nuovi, come alcuni che hanno filmato delle esperienze di laboratorio, le hanno messe in rete, hanno sopperito alle diverse necessità didattiche. Però non nascondiamoci dietro un dito: quello è un tamponare una situazione di emergenza, e vuol dire che dobbiamo fare di necessità virtù, vuol dire che bisogna riconoscere le differenze, e questo è una se volete vale a qualunque livello della governance, per qualsiasi disciplina. Lo sappiamo, ci sono discipline, aree dove il passaggio della didattica distanza dà la possibilità che uno studente di Salerno, per esempio, possa seguire un corso di giurisprudenza dell’università di Bologna, e questo senza dubbio apre delle grandissime opportunità. Ricordo che in Unibo abbiamo avuto, nel 2020-21, un incremento notevolissimo delle immatricolazioni, anche se non era facile fare una previsione di come sarebbe stata la questione iscritti nel periodo della pandemia, invece l’Università di Bologna ha visto aumentare sensibilmente le immatricolazioni, e questo è ovviamente un buon segnale chiaro, ossia che tanti studenti dal nostro bacino d’utenza tipico, dalla bella costiera adriatica in giù, fino in Calabria e anche in Sicilia, su tante aree di tante discipline si siano potuti iscrivere ai corsi di determinate discipline, o anche di una un’università internazionale senza doversi muovere da casa propria. Allora questo è un aspetto di cui va tenuto ben conto, cioè se diciamo che la didattica in remoto non ha risolto nulla del problema, non abbiamo imparato nulla! Per esempio, abbiamo semmai imparato che servirà meno spazio, e che possiamo aumentare il numero di studenti senza aumentare le aule, che è possibile fare ricerca nei laboratori in presenza e a distanza, e così però abbiamo imparato che dobbiamo fare di più ricerca, in generale! Il mio articolo del Sole 24Ore, che citava Scaglione, terminava proprio con questo esserci resi conto di quanto siamo rimasti indietro noi università italiane, e che sarà un refrain l’essersi resi conto che ormai da decenni l’Italia investe poco nella ricerca, e che oggi noi siamo lì a mendicare i vaccini dagli altri, ad aspettare che qualcuno ce li dia, mentre avevamo delle strutture, aziende nel campo farmaceutico, più produttive potenti d’Europa, grandi famiglie farmaceutiche italiane, grandi nomi e brevetti di famaci unici! Quindi oggi ci troviamo in questa situazione, e detto questo l’esperienza didattica a distanza, -e condivido le vostre le vostre opinioni-, quando ho potuto farla con gli studenti -e qui adesso vado proprio sul personale- in aula e gli altri in remoto, mi sono trovato tutto sommato molto bene, anche se continuo a pensare che sia meglio un aula piena di una mezza vuota, e non con un pezzo qua e un pezzo di là, però ancora una volta, se questo è un modo per poter arrivare a tutti gli studenti senza costringerli a venire in dipartimento, ie nella situazione in cui eravamo, va bene, anzi benissimo. Ho trovato estremamente frustrante, all’inizio, come molti di voi hanno fatto notare, anche se si tratta di discipline diverse, che al primo anno avessi una serie di bolli sullo schermo, una delle esperienze più stancanti della mia lunga carriera accademica, poi però, devo dire sorprendentemente, gli studenti non mi hanno punito, perchè mi aspettavo di venire castigato nelle valutazioni, invece secondo me hanno avuto pietà, ossia si sono resi conto che comunque lo sforzo che avevo fatto di trasformarmi in docente digitale c’era stato. Trasferire quel che sapevo attraverso lo schermo, o come stiamo facendo adesso, è stato comunque compreso, e forse pensando di aver interpretato bene l’invito di oggi, volevo segnalare altri aspetti che fanno parte della nostra vita, e che non stanno emergendo nel nostro dibattito. Tra i quali che le altre conseguenze di questa situazione sono estremamente positive, e dalle quali sarà difficile tornare indietro: per esempio sicuramente abbiamo imparato come superare la burocrazia, la “polizia amministrativa” dei nostri atenei, che si è data una smossa, e gioco forza quello che prima sembrava impossibile, cioè il fatto è che io ricevessi un documento, facessi una firma digitale e non dovessi andare in un ufficio per portarglielo a mano, perché guai se non c’era sotto la mia firma in calce originale, era un ostacolo insormontabile, alla fine appunto di necessità virtù, e adesso è diventata una prassi. Abbiamo ridotto enormemente il la circolazione di carta, abbiamo una firma digitale che usiamo costantemente, abbiamo eliminato le file, non ci sono più tutte le procedure, e possiamo, in un tempo rapidissimo fare cose prima impensabili, e questo è sorprendente. Anzi mi sento colpevole pensando a quanto tempo abbiamo sprecato prima in tantissimi percorsi che riguardano gli studenti, le missioni, gli acquisti, i consigli di dipartimento. Adesso siamo in grado, nell’arco di un anno, di fare tutto senza dover andare all’ufficio, e non vogliamo tornare indietro da questo, e non vogliamo nemmeno tornare indietro dallo smartworking, abbattendo i costi, i tempi, l’inquinamento dei tanti spostamenti. Ma soprattutto c’è un tema che riguarda la conciliazione casa-famiglia-lavoro, riguardo principalmente alle donne, tutta quella parte che lavorando a casa si possono risolvere tanti altri problemi. Infine, tutto questa accelerazione della pandemia, ci sta portando a ridefinire l’utilizzo degli spazi, e dico una cosa cattivissima sperando che non ci siano amici umanisti, scienziati politici qui in ascolto, però i dipartimenti sono stati letteralmente vuoti! Vuoti nel senso che non c’era dentro nessuno, quindi se dovessimo oggi riprogettare un’area per un dipartimento di Scienze sociali mi chiederei francamente, una volta che avremmo fornito una potente biblioteca digitale accessibile online, spazi di riunione comuni, sale studio, punti di appoggio e così via, e hai le aule per gli studenti quando farai lezioni in modalità blended, insomma che sarà possibile una ridefinizione dell’utilizzo degli spazi dell’università molto significativa, con un impatto notevole sul lungo periodo. Non vorrei, dunque, più tornare indietro da questo, perché questo vuol dire ottimizzare le risorse, utilizzarle in maniera molto più intelligente, porre attenzione alla mobilità, e fare tutto il possibile per non far mancare il momento di socialità degli studenti, dottorandi e il dottorato di ricerca, che è anche contatto sporadico, casuale durante la partecipazione al convegno con il “big naim”, che viene a chiederti cosa hai scritto su quel poster; la chiacchiera, cosa ho scritto o scarabocchiato sul tovagliolino al momento del caffè… La vita dopo la pandemia è anche spazi fisici di ricettività degli studenti, dei giovani ricercatori, dottorandi, come nell’ultimissimo articolo che ho scritto sul Sole 24 ore in cui ho proprio detto di puntare a costruire residenze, luoghi che coinvolgano nel vivere insieme, creare, fare, collaborare, coworking, incontrarsi e produrre nuove idee perché altrimenti rischiamo veramente che in questa pandemia si crei una ragnatela di persone connesse solo esclusivamente attraverso lo strumento che stiamo usando oggi. (estratto dall’intervento)
Enzo Siviero, Rettore Università E-Campus; Il mondo universitario italiano è connotato da una specie di DNA che io ho definito “razzismo culturale”, che si è esplicitato in tutti questi decenni, e prosegue, nei sistemi concorsuali in cui abbastanza spesso passano coloro che sono bene o male nel mainstream, cioè quegli elementi borderline sempre tenuti ai margini, con un modo che resta il modo migliore per bocciare uno bravo e dire che, nel settore, quello chiamato era il migliore! Con questo abbiamo detto tutto, ma abbiamo esempi straordinari di persone che hanno dovuto emigrare, e ci rendiamo conto di quanto abbiamo perso nel non determinare una moralità, di mettere un freno a questo sistema, perchè se c’è una capacità che ha il professore universitario soprattutto italiano, e quello di inventarsi di dribblare nelle regole per cercare di mantenere, come dire, una linea da barone, di quelli che ho anche frequentato e che debbo dire la verità dobbiamo anche rimpiangere, a questo punto tra i tanti “dilettanti” di oggi, proprio per quella capacità baronale, quell’astuzia, di far passare una persona che non meritava! Dunque, la questione della didattica a distanza mi fa venire in mente alcune cose. Quando ero al CUN, la questione delle telematiche è sorta in modo prorompente, ed è sempre stata vista dal sistema nazionale con la puzza sotto il naso, e ammetto che io stesso sono stato contagiato da questi aspetti, perché in fondo mancando il confronto non ci si rendeva conto delle differenze. Faccio oggi il rettore di e-Campus, e qui devo ammettere che ho avuto qualche titubanza all’inizio, perché ero anch’io ostaggio di retaggi abbastanza pesanti, poi invece ho cercato di capire come fosse possibile declinare questa novità italiana, anche se già in ritardo rispetto ad altre posizioni ed esperienze, e lo stiamo vedendo adesso, in modo prorompente, oggi cosa volesse dire, invece, creare una condizione perché l’università telematica diventasse uno degli elementi cardine del sistema universitario nazionale. Le telematiche che contano sono cinque o sei penso, e credo che la e-Campus sia tra le prime, se non altro per offerta formativa, e anche per la giovane età dei docenti, e poi possiamo anche dircelo tra di noi, visto che siamo che siamo in famiglia, che il giorno dopo che sono diventato rettore ho cominciato a ricevere telefonate di amici e colleghi! Ma torniamo alle questioni odierne, rispetto anche a certe università pubbliche e ad alcune telematiche, anche qui distinguiamo, quando ho avuto occasione di incontrare i Rettori, ho detto loro, mettetemi tutti i paletti che volete, ma io voglio entrare nel sistema CRUI, perché voglio partecipare al dibattito, e non perché voglia prevaricare le posizioni, lungi da me l’idea. A proposito delle facoltà architettura, che ovviamente conosco molto bene, posso dire anche che conosco gli architetti meglio di quanto conoscano gli architetti se stessi, faccio una battuta, perché so che sono capito da Mosè, da Pino, da Marcello, e adesso credo di essere capito anche da Elena, perché si tratta di soggetti che non hanno le bardature mentali del sistema universitario tradizionale, e che hanno dovuto subire una situazione, durante la Pandemia, dalla sera alla mattina, alla quale potevano tranquillamente essere preparati seriamente, solo cominciando a fare quello che si sta facendo in giro per il mondo da tanti anni, anche in università blasonatissime. Però, siccome “nessuno nasce imparato” anche loro, gli architetti e le altre categorie di docenti hanno fatto i conti con la “diversità”. Anche noi come e-Campus, abbiamo fatto tanta strada già in questa direzione, e da quasi dei miei cinque anni abbiamo fatto un salto di qualità, anche quando, l’anno scorso, abbiamo ottenuto il dottorato, anche se qualcuno ha detto “ma come il dottorato nelle telematiche”? Non è che i ranking di posizione non ci interessano, e come tutte partecipiamo alla VQR, ma non avremo mai il sussidio economico, quindi lo facciamo per dimostrare che vogliamo competere le università tradizionali e non solo con le altre telematiche. Ma arrivo ad una sintesi, perché mi piace che il ponte si chiuda, e come diceva Leonardo da Vinci vorrei che il sistema universitario italiano fosse un arco in cui c’è da un lato mezzo arco che è la telematica, o comunque un’università che ha sperimentato in termini organizzativi la didattica a distanza, dall’altro ci sia il sistema universitario tradizionale, con in mezzo lo studente, senza il quale non viviamo. E lo studente ha bisogno di essere abbeverato, alimentato, e lo si alimenta se siamo in grado di fornire un sistema equilibrato e congruente, qualche cosa che sia rotondo e che sia quindi nella condizione di trasmettere un sapere, essendo certi che questo sapere trova nello studente una acquisizione concreta e vera, e questo è tanto più vero nelle facoltà di architettura, dove si insegna ad insegnare cose che non si sono mai praticate, si insegna a non sapere, ma c’è qualcuno che paradossalmente diceva la condizione necessaria per insegnare una cosa e non conoscerla. Naturalmente, su questi paradossi possiamo lavorare finché vogliamo, però torno su e-Campus e sulla università da remoto, dicendo che siamo annoverate fra le migliori, che abbiamo oltre cento sedi in Italia, parliamo di quarta missione e la pratichiamo, noi abbiamo 30.000 metri quadri immersi nel verde, con un auditorium da 150 posti, una mensa che può offrire pasti per 500 persone, abbiamo 250 stanze di foresteria, facciamo seminari intensivi, corsi accelerati, cioè portiamo lo studente in casa nostra a parlare insieme con gli altri studenti, col docente, e dunque siamo noi nella condizione paradossale di essere ritornati all’università del medioevo dove allo stesso tavolo sedevano gli studenti che pagavano i docenti il personale, fondamentale. Allora che cosa propongo, di tornare a un sistema in cui prima di tutto ci si parla, si ascoltano le ragioni degli uni e degli altri, e a proposito, Elena, se trovi Ferruccio per la strada digli guarda che c’è Enzo che dice che tutto sommato siete dei razzisti culturali, anche se lo considero una delle persone di riferimento, ma il sistema universitario, il sistema pensante italiano, perché forse non avete ascoltato abbastanza le istanze degli studenti, che non torneranno più indietro! Perchè si è capito, banalmente, che si può anche risparmiare, ma anche ottimizzare, perché l’ottimizzazione è fondamentale in tempi di crisi, a partire dal tempo che si dedica ai trasferimenti, e all’inquinare, al liberare spazi, al fare in modo che la curiosità dello studente venga appagata, per esempio con un sistema importantissimo che è quello di registrare le lezioni, faticoso, ma impone una disciplina anche al docente, che in certi casi, consentitemi di dire perché li conosco molto bene, mandano in aula l’assistente, o vanno in aula non preparati, o non ci vanno magari perché all’ultimo momento hanno l’udienza! Ecco perché poi vai nella facoltà di giurisprudenza, nei dipartimenti ed è difficile trovare un docente, perché sono tutti a tempo definito e si fa fatica a trovare il professore a tempo pieno che faccia direttore di dipartimento, ed è chiaro che gli studenti sono invogliati a venire da noi, a cliccare e se hanno qualche problema lo comunicano a noi, che abbiamo i cosiddetti tutor online e altre attività di vero supporto! Adesso chiudo, anche se avrei tantissime altre cose da dire, ma magari riprendiamo questo tema un pò più avanti, ora diciamo che è giunto il momento in cui ci si deve sedere al tavolino e parlare con tutti, perchè non c’è nessuno che ha la polpetta avvelenata. Quindi esco per dire che noi siamo come sistema siamo esattamente qualificati come le università pubbliche, che il nostro corpo docente ha un età media di 40 anni, dove nell’università italiana l’età media del docente è di 50 anni, posso anche dire che il reclutamento è stato fatto assolutamente cercando quello che il mercato poteva dare, ma scegliendo il meglio, e infine che andiamo in continua interazione con il nostro corpo docente, anche in modo sistematico partecipando alle sedute di laurea. Bisogna fare in modo che queste tutte le persone siano motivate, come chi viene da noi reclutato, spesso rifiutato dalla sua sede, non perché non era all’altezza, ma perché non sufficientemente supportato dalla sua stessa Scuola, ed ecco un’altra volta che il razzismo culturale, di cui si parlava prima, deve dimostrare prima di tutto a se stesso e anche fuori, che quello “prescelto” è il più bravo, ma su questo, infine, noi facciamo leva per dire ai ragazzi che il nostro corpo docente, che tra l’altro è subissato da tanti impegni ai quali assolve con impegno costante, perché ha una quantità di attività didattica enorme, risponde a questi ed altri requisiti, anche a livello internazionale, perchè sono quelli che contano, e perché non contano tanto i grandi numeri, ma i buoni numeri! (estratto dall’intervento)
Carlo Ratti, Architetto, Docente al MIT di Boston; Buonasera a tutti, ciao Pino, eccomi, ci sono, e vi racconto un pò la mia posizione, che poi è molto simile a quella di tanti miei colleghi al MIT, dove insegno con una cattedra di urbanistica e tecnologie urbane, e dirigo un laboratorio di ricerca sempre al MIT, questo per la parte di ricerca accademica, poi invece a New York facciamo la parte di progettazione, di architettura, di urbanistica. Bene, vi porto un pò alcune riflessioni, mie, ma condivise anche con buona parte della comunità scientifica, e la prima cosa riguarda il fatto che quest’anno siamo stati forzati dalla pandemia, che ci ha obbligati a fare tanti passi che altrimenti non avremmo fatto: da imparare a usare strumenti come Zoom o Teams, e sdoganare questi strumenti, ma ci ha obbligati anche, in università, ad insegnare in maniera completamente diversa, soprattutto negli ultimi 12 mesi, e proprio l’interazione con gli studenti è cambiata radicalmente. Penso che alcune cose non torneranno nel lungo periodo, ed è un bene che non tornino, magari dentro e fuori dall’università: alcuni viaggi folli, quelli per cui partivamo per destinazioni lontane, quanti di noi tante volte sono partiti, che ne so, da New York per andare a Singapore per un meeting di tre ore, o magari per discutere un progetto; tutto ciò è stato, e resta, una follia per l’ambiente e una follia per le nostre vite! E così ieri, qui nell’università dove si tenevano le lezioni frontali, oggi queste sono la cosa più ripetitiva che una possa immaginare. Mi ricordo questa docente a Parigi, quando io frequentavo, che insegnava le stesse cose che, appunto, aveva probabilmente per vent’anni ripetuto, con le stesse slides, con quel meccanismo molto ripetitivo della lezione frontale. Oggi, direi che è un’ottima cosa virtualizzare questo genere di attività, e invece, per il docente e lo studente, non ripetere gli tessi contenuti ogni anno e poter trasmettere e ascoltare in maniera più flessibile, magari leggermente in differita, pulendo le parti non esattamente aggiornate. Noi però, stiamo parlando dell’università in paesi rilevanti, Europa, Stati Uniti, ma pensiamo ai miliardi di persone che devono avere una formazione universitaria in altre parti del mondo, quali Asia, Africa, dove questo virtualizzare significherebbe, potenzialmente, democratizzare i percorsi e rendere l’accesso alla formazione universale. Abbiamo fatto un corso sulla città con alcuni colleghi e con la responsabile di Artificial Intelligence del MIT, con Tim Berners Lee, l’inventore del web, molto interessato ai temi della città, un corso in remoto che è stato visto da decine di migliaia di persone, ma la cosa bella è proprio la democratizzazione del sapere in questa direzione, quindi sono convinto che buona parte di questo resterà un bene non cancellabile! E allora chi se ne frega di andare a ripetere gli stessi lucidi, le stesse slide ogni anno, il tempo che liberiamo da queste attività ripetitive possiamo usarlo per altre cose, proprio per maggiore interazione fisica con le persone, gli studenti, per passare più tempo con loro, per fare più revisioni dei lavori didattici, laboratori, workshop, appunto tutte quelle cose che effettivamente portano valore nell’interazione. Per chi fosse interessato ad approfondire questi argomenti, ho scritto, di recente, un editoriale sul Times Higher Education Supplement(https://www.timeshighereducation.com/author/carlo-ratti), uscito tra quattro settimane fa, in cui esordisco scrivendo che “Ho visto il futuro dell’università in una casa condivisa lontana dal campus”, concentrandomi proprio sul fatto che il nostro modello universitario, un modello che risale a Bologna, ha ormai un migliaio d’anni, che poi si è sviluppato nei College anglosassoni, a Cambridge e Oxford, e poi appunto con tutte le evoluzioni fino ad oggi. Ma ciò che accade in questi mesi, in questo ultimo anno, sarà ricordato come una bella rivoluzione, che speriamo ci porti a democratizzare il sistema in breve tempo, quindi un sistema che mette insieme fisico e digitale, in cui possiamo virtualizzare le cose ripetitive e dove concentrarci più sulle cose fisiche di interazione. Un ultimo appunto, molto semplice, quello con cui son partito in questo articolo (pubblicato in Italia da Sole24ore), era, tra l’altro, la notizia di una comunità di studenti di Harvard che invece di stare a Cambridge, bloccati dalla pandemia, hanno preso una casetta nel Rhode Island, che costava poco in bassa stagione, vicino al mare, e hanno creato una comunità di studio, mostrando un aspetto molto interessante di questa ibridazione fisico-digitale! In questa comunità di studio loro sono ancora lì, stanno finendo il semestre, e adesso e riescono a usare i nuovi strumenti della rete per accedere alla conoscenza, poi si scambiano gli uni e gli altri opinioni dirette sul ciò che studiano, quindi quell’aspetto aperto, di imparare gli uni degli altri, avviene invece nello spazio fisico perfetto di una piccola comunità studentesca. Questa iniziativa, chiamata “casa della collaborazione”, è diventata popolare tra alcuni studenti che non possono più vivere nel campus durante la pandemia di Covid-19. Dopo un semestre di apprendimento in questi “campus” improvvisati, in miniatura, possiamo iniziare a immaginare i contorni di un futuro più ampio e promettente per l’istruzione superiore. La casa della collaborazione tra gli studenti è in realtà il sottoprodotto di una verità antica e duratura: gli esseri umani imparano e condividono più profondamente quando sono vicini l’uno all’altro. Per chi fosse interessato, c’è un’altra esperienza un’esperienza bellissima a Parigi, che si chiama “Ecole 42” una scuola basata sull’assenza dei professori, sull’apprendimento gratuito, una scuola in cui sul modello Peer To Peer serve a darsi delle sfide, dove gli studenti imparano gli uni dagli altri, a risolvere i problemi, ecco in questo caso lo spazio fisico è fondamentale e dobbiamo usarlo per questo, ma tutte le cose ripetitive, per cui lo spazio fisico non serve a niente, salteranno nei prossimi anni. Mi ricordo le lezioni ad ingegneria, a volte negli auditori alle sette del mattino, pieni zeppi, e tutti zitti cercando di occupare un posto per andare a sentire, appunto, per l’ennesima volta la presentazione uguale a quella dell’anno precedente fatta dal docente. Di tutto questo passato recente, e in parte presente, la rete ci permette di trasportare tutto in un’altra dimensione, e rimane il migliore strumento per il docente per lo studente che ascolta e apprende, così come potenzialmente per tutti le altre decine di migliaia, milioni di persone che in maniera più democratica potrebbero accedere a questa nostra conoscenza! Quando sono in alcuni paesi come l’India, paesi africani, dell’Asia, mi chiedo sempre quante persone, che magari stanno guidando un risciò, che avrebbero potuto avere accesso allo studio con queste forme, potrebbero essere sono dei premi Nobel mancati, a volte glielo vedi quasi quasi negli occhi, e comprendo che abbiamo un dovere nel far sì che la conoscenza nostra non resti in queste vecchie torri, preda di questi vecchi dinosauri, che sono le nostre università, i nostri accademici, ma possano arrivare anche a loro e possano arrivare appunto ad un importante modello orizzontale! (estratto dall’intervento)
Vito Cappiello, già Professore di Architettura del Paesaggio, Università di Napoli; Buona sera, mi è molto piaciuto l’intervento di Elena Granata, in cui lei sottolinea tre cose principali: intanto che gli studenti possono rimanere nei luoghi dove vivono e quindi operare anche su alcuni errori di equilibri dei territori, un’operazione che non si connette soltanto al tema del sapere, ma al tema del riabitare l’Italia, uno dei temi importanti di fronte a cui noi ci troviamo. Inoltre, ha sottolineato che noi ci troviamo a insegnare cose che non conosciamo, e secondo me questa è presa di coscienza importante, che non significa che noi siamo degli sciocchi, ignoranti, significa, come diceva anche Ricci, di non sapere ma che dobbiamo modificare il nostro modo di conoscere, dobbiamo apprendere nuove cose e che il rapporto con gli studenti e uno dei metodi attraverso cui possiamo apprendere, oltre che insegnare. Ho smesso quest’anno di insegnare, ma mi accorgo che, e lo dico sempre gli studenti, quando loro mi dicono “professore non sa quante cose abbiamo imparato da lei”, io rispondo “non so quante cose voi mi avete fatto imparare!”. Questo è un altro tema importante, e il terzo cui si riferiva Elena Granata, è che molti studenti, laureati sono costretti ad andare fuori e poi tornano arricchiti, con la capacità di fare cose che noi non siamo stati in grado di costruire. Questo è un altro tema dirimente dell’università, un tema importantissimo che abbiamo tante volte ribadito: l’università non può continuare ad essere questa isola separata da tutto ciò che ci circonda, soprattutto da ciò a cui andranno incontro nel mondo della professione. Dobbiamo insegnare ad avere quella sapienza che veramente serve come utile metodo per poi affrontare la vita e il mondo del lavoro, quali il tema delle biomasse, del fare sull’esistente, del rigenerare, delle problematiche dell’ambiente, ecco ci sono dei campi in cui ci sono delle necessità di conoscenza da cui bisogna partire, o perlomeno ripartire e che bisogna conoscere per poi, diciamo, rifiutarle, separarle. L’architettura e tutto ciò che ruota intorno al mondo dell’architettura, il progetto urbanistico e la composizione, fondamentale per poi poter fare anche la progettazione urbana, dunque noi dobbiamo sì avere questo atteggiamento, che io trovo veramente illuminante, di innovare, ma anche di conservare, applicare a quelle specificità che appartengono al mondo del fare architettura in senso lato, senza le quali non è possibile fare questa professione. Dirsi sorpresi di fronte a tutto ciò che sta accadendo, è dire che non è più l’architettura di Palladio quella con cui misurarsi, ma è sicuramente qualcosa di molto diverso, anche il confrontarsi col mondo antico, e oggi con i temi ambientali, ma questo richiede un atteggiamento progettuale nuovo, perché una delle capacità, delle necessità che l’uomo ha è di godere del bello, conoscere e insegnare il bello, perlomeno cosa è stato il bello, e su cosa si può rifondare per creare anche un nuovo canone estetico, che guardi alla natura, ai luoghi, per non cadere nella trappola delle funzioni tecniche e tecnicistiche, che ci allontanano dalla vera felicità degli uomini! (estratto dall’intervento)