di Alessandro Mauro
Quand’ero studente guardavo ad alcune opere d’architettura con quell’incanto, oggi perduto, tipico delle cose che ci affascinano perché non le comprendiamo del tutto. Quand’ero studente pensavo che per realizzare una grande architettura bastasse un’idea brillante – e io credevo d’averne – e un cliente – e quello, pensavo, sarebbe arrivato. Poi ho capito che più difficile d’avere un’idea brillante è trovare un committente che ti consenta di metterla in pratica, e un’impresa che la metta in pratica proprio come l’hai pensata tu. È per questo che mi hanno sempre affascinato gli esordi, gli anni in cui si mettono a punto le prime, rudimentali idee sull’architettura e, soprattutto, gli anni in cui si comprende quanto complesso sia realizzare anche quelle che appaiono le opere più semplici. Certo, se ti chiami, chessò, Frank Gehry, Renzo Piano o Rem Koolhaas, e hai studi e cantieri in tre continenti, faccio fatica a immaginare carenza di committenti e imprese accondiscendenti. Se invece sei nato, mettiamo, in un villaggio disteso nella placida monotonia d’un cantone svizzero, e magari hai un nome ordinario, tipo Charles-Édouard, e tuo padre è nient’altro che uno smaltatore di quadranti d’orologio, e tua madre un’insegnante di pianoforte. Se vieni da una condizione simile, dico, farai una certa fatica a pensare che, come architetto, riuscirai a cambiare il mondo. Eppure, Charles-Édouard – quando ancora non aveva barattato il suo nome con uno decisamente pretenzioso – dalla triste serenità di La Chaux-de-Fonds, la cittadina dove nacque e visse durante la sua giovinezza, non mancò mai di pensarlo. Di riuscire a cambiare il mondo, dico.
Charles-Édouard era uno studente brillante e un ottimo disegnatore, anche per questo i genitori lo iscrissero senza esitazione all’Ecole d’Art. In questa scuola, l’equivalente di quello che fino a qualche anno fa, in Italia, si sarebbe chiamato Istituto d’Arte, il giovane Charles-Édouard ha una preparazione tecnica fortemente direzionata al lavoro; e il lavoro, in un luogo come quello, sarebbe stato quello di decoratore di casse d’orologi, o qualcosa di simile. A La Chaux-de-Fonds nel 1848 nasce infatti l’azienda di orologi Omega, e nel distretto delle aziende della zona fanno parte anche Rolex e Zenith. Nonostante questo anche lì, e già allora, si parlava con preoccupazione del futuro, delle rapide innovazioni tecniche e del rischio che questo mestiere potesse sparire.
All’Ecole d’Art il nostro si appassiona alle lezioni di un insegnante di appena tredici anni più grande: Charles L’Eplattenier, un architetto nato a pochi chilometri di distanza, a Neuchâtel, ma che aveva studiato a Budapest e Parigi; un uomo aggiornato sulle più flagranti novità internazionali dell’arte – dalla pittura all’architettura. L’Eplattenier ha provato a non confinare il suo insegnamento alla semplice applicazione della tecnica, che pure gli studenti dovevano apprendere, ma ad affrontare la complessità dell’arte contemporanea e la comprensione di quegli innovativi fenomeni artistici che avrebbero scandalizzato la pasciuta borghesia locale. Sarà lui, com’è noto, che spingerà Charles-Édouard a dedicarsi all’architettura, e sarà sempre lui a creare, nel 1906, un corso di specializzazione all’interno della scuola, un corso attivo, in via ufficiosa, già dal 1904, l’anno del diploma di Charles-Édouard. Questo team riceve commesse, prevalentemente di decorazione, prima piccole poi, via via, sempre maggiori, fino a quando, nel 1905, arriva l’incarico per la costruzione di una casa, incaricò di cui si occupò proprio Charles-Édouard, che era stato indicato da L’Eplattenier come l’architetto del gruppo. Formalmente il progettista era L’Eplattenier stesso, ma siccome non poteva firmare il progetto chiese all’architetto René Chapallaz di firmare al posto suo – manco fossimo al giorno d’oggi, a Crotone o a Canicattì –, e a Charles-Édouard di redigere il progetto. E così, a diciannove anni, il nostro realizza la Villa di Louis Edouard Fallet, un’opera che segue gli intenti del suo mentore, di rileggere lo stile Liberty in chiave regionalistica. Un’opera che, se non fosse stata realizzata su progetto di Charles-Édouard, ci saremmo presto e meritoriamente dimenticati. Nel 1907, coi soldi guadagnati, decide di affrontare un viaggio decisivo per la sua formazione e per la sua vita. Esaltato dalla sua prima realizzazione, dalle indicazioni di L’Eplattenier, e dai libri, di varia natura, che in questi anni divora – lo Zarathustra di Nietzsche, la Vita di Gesù di Renan o I grandi iniziati, di Schuré – Le Corbusier – pardonne, Charles-Édouard – viaggia per l’Italia disegnando minuziosamente tutto quel che lo impressiona. Studia, legge, viaggia. E scrive, a L’Eplattenier: «Voglio continuare questa vita di studio, di lavoro, di lotta ancora per molto tempo, vita felice, vita di giovane uomo […]. Non sarò più d’accordo con voi […]. Voi volete trasformare dei giovani uomini di vent’anni in uomini sbocciati, attivi, operanti». Si sposta ancora, prima Budapest poi Vienna e poi, finalmente, Parigi dove, com’è noto, lavorerà presso i fratelli Perret. Nel 1909 tornerà a La Chaux-de-Fonds ma l’anno dopo ripartirà nuovamente, ancora una volta grazie a L’Eplattenier, che gli aveva fatto avere una borsa di studio dall’Ecole d’Art per studiare le arti decorative in Germania. Qui – anche questo è noto – lavorerà presso lo studio di Behrens, scoprirà l’opera di Tessenow e, leggenda vuole, conoscerà di sfuggita quello che negli anni diverrà uno dei suoi più grandi rivali nella lotta per l’Olimpo dell’architettura: Mies van der Rohe. Nel 1911 lascia la Germania e si sposta ancora: Boemia, Serbia, Romania, Bulgaria, Turchia, Grecia e ancora Italia. Maximilien Gauthier[1] sostiene che a Istanbul abbia casualmente incontrato August Perret, il quale gli avrebbe offerto di tornare in studio da lui, a Parigi, per lavorare insieme al progetto del Teatro degli Champs-Elisées. Jeanneret rifiuta, termina il viaggio e, nel 1911, ritorna in Svizzera. E qui inizia, ufficialmente, la sua carriera da architetto: realizza una casa per i propri genitori (1912), una casa per il signor Favre-Jacot (1912), il fondatore della Zenith, e la più celebre Villa Schwob (1912-16). Ma in questi anni succede un’altra cosa importante, L’Eplattenier, che nel frattempo era diventato direttore dell’Ecole d’Art, nel 1911, l’anno del rientro di Jeanneret, aprì un nuovo corso didattico all’interno della scuola, più orientato alle esperienze artistiche internazionali che all’angusto mondo della decorazione d’orologi. Fra i docenti venne chiamato anche Charles-Édouard, che si dedicò a un corso il cui titolo farebbe impallidire Lina Wertmüller: “Elementi geometrici, loro caratteri, loro valori relativi, decorativi e monumentali, applicazioni diverse in architettura e nella fabbricazione di mobili e di oggetti; disegni esecutivi, piante, sezioni, prospettive; pratica esecutiva di opere di architettura, di decorazioni d’interni e di oggetti diversi”.
Ora, come spesso accade nei silenzi mansueti della provincia, basta poco, come mettere in discussione una tradizione consolidata, per scatenare l’inferno. E così: roventi polemiche, accuse incrociate, articoli di giornale e il coinvolgimento della politica; fra le accuse c’è n’è anche qualcuna rivolta ai docenti come Jeanneret, così giovani e inesperti. Il nostro sarà persino disposto a sottoporsi a un esame, nel dicembre del 1913, per avere tutte le carte in regola per l’insegnamento. Ma le polemiche proseguirono e si affievolirono solo dopo il marzo del 1914, quando L’Eplattenier si dimise dalla scuola. A questo punto, tornata la vecchia dirigenza, l’Ecole d’Art potrà ritornare ai vecchi programmi e preparare i suoi studenti alle decorazioni degli orologi prodotti in zona. Jeanneret, avendo anche superato l’esame, può rimanere a insegnare ma attenendosi ai programmi tradizionali: rifiuterà sdegnato. Passano tre anni e Jeanneret prova a supplire la carenza dell’introito di docente dedicandosi agli Ateliers d’art réunis, il gruppo formato da L’Eplattenier che gli aveva consentito di realizzare la sua prima opera, dedicandosi ora alla decorazione d’interni dei suoi concittadini benestanti. Sarà forse quest’esperienza che gli farà partorire, anni dopo, un celebre aforisma: «L’arte del decorare consiste nel fare nelle case degli altri quello che non ci si sognerebbe mai di fare nella propria». Si dedicherà perfino ad acquistare, per conto dei propri clienti, mobili, soprammobili e suppellettili varie; un’attività che proseguirà, all’occorrenza, anche a Parigi, quando voleva conquistare la stima di qualche cliente, come farà col banchiere La Roche.
Ora, proviamo un attimo a immaginare i pensieri di Charles-Édouard. È il 1917, lui ha trent’anni, un’età in cui, allora, era difficile non essere già sposati e non avere dei figli. La grande guerra è ancora in corso e la condizione economica dei maggiori paesi europei era evidentemente drammatica. La Svizzera però non aveva partecipato al conflitto, e non aveva dunque subito le migliaia di morti e le distruzioni degli altri paesi. Charles, poi, con le prime case realizzate si era fatto un nome nella zona e non c’era ragione di pensare che la sua attività di progettista non potesse continuare con altrettanta fortuna. Inoltre aveva insegnato all’Ecole d’Art e poteva farlo ancora, e godere dunque di quello che oggi chiameremo il “posto fisso”, uno stipendio sicuro. La sua vita era quindi avviata su un percorso conosciuto e amico: un fisso mensile per le esigenze economiche primarie, una professione che lo appassionava, la possibilità di studiare e approfondire privatamente quelle questioni che lo affascinavano e, se lo avesse voluto, si sarebbe perfino potuto sposare e avere dei figli. Ed è qui che penso alla condizione attuale di molti giovani d’oggi. Cosa fa Jeanneret, quando ancora non si chiamava Le Corbusier, e non era altro che un giovane – giovane? – di belle speranze? Molla tutto e si trasferisce a Parigi, molla le sue certezze, i suoi primi clienti e la sua posizione sociale per lanciarsi nella più rischiosa delle sue avventure: ricominciare tutto daccapo. Cosa può insegnarci questa storia, che per avere successo bisogna emigrare? O che per realizzare grandi opere è necessaria quella – come definirla, forse “paraculaggine”? – di cui Le Corbusier, anni dopo, si è dimostrato un impareggiabile maestro? Forse semplicemente, e qui mi riferisco soprattutto ai giovani, questa storia può insegnarci che, per dirla con una canzonetta di un po’ d’anni fa, «non ci sono percorsi più brevi da cercare, c’è la strada in cui credi e il coraggio di andare».
[1] Maximilien Gauthier, Le Corbusier. Biografia di un architetto, Zanichelli Editore, Bologna, 1987, p.22