di Francesco Gastaldi
L’economia italiana sta attraversando la peggiore recessione, per intensità e durata, dal dopoguerra, la crisi si manifesta con effetti territoriali di varia natura e sta facendo emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì a problemi legati alle possibili destinazioni d’uso di strutture produttive, commerciali e per il tempo libero abbandonate, alla limitazione della crescita edilizia e, più in generale, alla transizione verso nuovi modelli di sviluppo. Sia i tessuti urbani più consolidati, sia le dispersioni insediative appaiono sempre più costellati da una miriade di vuoti, volumetrie inutilizzate e in attesa, spazi in cerca di nuove vocazioni. Nessuno avrebbe potuto immaginare che i molti tessuti di piccola e media impresa le “aree traino” del dinamismo economico del paese, soprattutto nell’export, potessero avviarsi verso una spirale di crescente debolezza Le interminabili distese di edifici e capannoni industriali di medio-piccola taglia, oggi popolati da cartelli con scritto “affittasi” o “vendesi”, sono spesso incapaci di rispondere alle nuove esigenze delle imprese, costrette a riorganizzare la propria produzione per rispondere alla crisi economica, ma al contempo sono altrettanto inadeguati a rispondere “a nuovi segmenti di domanda legati (…) a forme del produrre che faticano a collocarsi negli stock esistenti”[1], spesso caratterizzati da mediocre qualità, da alti costi di manutenzione e di gestione e dalla carenza di servizi collegati.
Un altro elemento che contribuisce ad aggravare la situazione dell’abbandono di capannoni è la crisi del mercato immobiliare. Si è assistito, negli ultimi dieci anni a una rottura del meccanismo economico più consolidato: domanda e offerta di capannoni non si incrociano più, le attività in crescita e più dinamiche si spostano all’interno di nuove aree industriali (talvolta anche in altre aree città o altri territori) di più recente realizzazione, in lotti di maggiori dimensioni e meglio serviti dal punto di vista logistico, ognuno tende a realizzare un proprio capannone che diviene emblema e rappresentazione della “ditta”. Uno degli elementi che ha contribuito in larga parte all’aggravarsi del fenomeno è stata la legge del 2001 Tremonti bis che “assegnava incentivi fiscali alle imprese che reinvestivano i propri utili in beni strumentali, che si traducevano materialmente nella costruzione di capannoni, mentre oggi si assiste a maggiori inerzie del credito bancario per persone e imprese che blocca le nove edificazioni, ma anche trasformazioni e riusi.
Nella regione Veneto, considerata la “patria dei capannoni” manca una stima aggiornata delle superfici delle aree produttive-commerciali-artigianali oggi in disuso, si tratta ovviamente di un fenomeno di difficile quantificazione e in continua evoluzione. Se si eccettuano alcune stime effettuate dalla CGIA di Mestre e da Confartigianato del Veneto[2], la difficoltà maggiore è quella di reperire dati aggiornati poiché i comuni e le associazioni di categoria non hanno le risorse finanziare per effettuare un “censimento del dismesso”. La maggior parte dei dati a disposizione dai comuni e dalle associazioni di categoria sono dati pre-crisi, a questo si aggiungono molte difficoltà pratiche: dovrebbero essere incrociati dati provenienti da enti diversi; molti capannoni presentano una frammentarietà proprietaria di difficile comprensione o sono parzialmente utilizzati (talvolta come magazzini), in altri casi le imprese sono coinvolte in fallimenti, le amministrazioni locali dovrebbero incrociare dati provenienti da pratiche edilizie con dati sulle imposte comunali o con pratiche catastali, ma non hanno né il tempo, né le risorse umane (e forse anche poca volontà politica) per effettuare tali ricognizioni. I dati dovrebbero essere catalogati anche a seconda delle caratteristiche intrinseche degli edifici: epoca di costruzione, materiali utilizzati, stato di manutenzione o degrado, classe energetica, localizzazione ecc. ecc. Enrico Fontanari e Maria Rosa Vittadini nel loro contributo al report del WWF del 2013 dal titolo “Riutilizziamo l’Italia”, utilizzano il termine “relitti territoriali” per descrivere tutto quel patrimonio immobiliare caduto in disuso a seguito della crisi[3]. L’incremento del carico fiscale[4] ha poi contribuito alla proliferazione di processi di abbandono, al blocco del mercato e al conseguente deterioramento delle strutture non utilizzate. Perfino le aste giudiziarie di capannoni, in aumento per effetto di fallimenti e crisi aziendali, vanno sempre più spesso deserte[5]. Non solo i manufatti, ma anche le aree esterne e circostanti o perfino interi sistemi produttivi si avviano verso progressivo “svuotamento”. Queste aree sono inoltre profondamente colpite da un generale e progressivo degrado fisico e funzionale, che si manifesta talvolta in “pratiche informali” come discariche abusive di rifiuti ingombranti, depositi di materiali o in taluni casi perfino prostituzione nelle ore notturne.
Si osserva tuttavia che alcune aree inizialmente concepite come produttive-artigianali sono oggetto di una parziale riconversione funzionale orientata al settore terziario, molto spesso si rileva l’insediamento di attività commerciali, magazzini all’ingrosso e al dettaglio, servizi logistici, servizi alla persona e per il tempo libero come ad esempio studi di registrazione musicale (Fossò -Venezia), palestre a Santorso (Vicenza) e a Motta di Livenza (Treviso), oppure luoghi di culto per la comunità musulmana (Treviso, Padova) e luoghi di lavoro in campo innovativo: studi di architettura e design (Vigonovo-Venezia)[6]. Parallelamente si sta accentuando la crisi dei tessuti commerciali urbani, sempre più caratterizzati da locali chiusi e senza affittuari, con effetti perversi che si innescano: diminuzione dei flussi pedonali, minore sicurezza urbana, diminuzione dei valori immobiliari e si assiste ad una trasformazione di quelle che da tempo sono definite come “strade mercato” (a partire dal pionieristico lavoro di Boeri-Lanzani-Marini)[7] che evolvono e si trasformano e che a una attenta analisi sono molto diverse rispetto a 20-25 anni fa: cambiamento dei settori merceologici e conseguentemente delle gravitazioni, aumento di tutto il settore food soprattutto in prossimità dei centri urbani, chiusura di mobilifici e concessionari auto a causa della crisi.
Francesco Gastaldi, è professore associato di
Urbanistica, Università IUAV di Venezia
1, Federico Zanfi, “Dopo la crescita: per una diversa agenda di ricerca”, in Territorio n. 53, 2010, p. 112; [2] http://mattinopadova.gelocal.it/focus/2015/11/10/news/caso-capannoni-aste-deserte-prezzi-a-picco-1.12421064; 3 Enrico Fontanari, Mariarosa Vittadini, “Aree Industriali in dismissione: riciclo e nuovi paesaggi in Veneto”, in WWF Italia (a cura di Andrea Filpa, Stefano Lenzi), Riutilizziamo l’Italia. Dal censimento del dismesso scaturisce un patrimonio di idee per il futuro del Belpaese, WWF Italia, Roma, 2013, pagg. 199-202;
4 , http://www.cgiamestre.com/articoli/23567
[5] Si veda: http://mattinopadova.gelocal.it/focus/2015/11/10/news/caso-capannoni-aste-deserte-prezzi-a-picco-1.12421064
[6] Alcuni casi di riutilizzo di capannoni sono citati nel saggio: Francesco Gastaldi, Ylenia Bristot, Andrea Stefani, “Territori post metropolitani ed effetti della crisi nell’area centrale veneta”, in Veneto Nord-Est. Rivista di cultura socio-economica della CGIA di Mestre, n. 43, 2015, pagg. 13-40, altri in cari materiali di lavoro della ricerca dell’Unità locale della Ricerca PRIN dell’Università IUAV di Venezia coordinata da Luciano Vettoretto; [7] Stefano Boeri, Arturo Lanzani, Edoardo Marini, Il territorio che cambia. Ambienti, paesaggi e immagini della regione milanese, Abitare Segesta, Milano, 1993