Salvatore Sava, artista, uomo delle terre leccesi, in cui vive e coltiva tutti i suoi diversi frutti, è la rappresentazione vivente della forza interiore, e ancora una volta del talento, della capacità di produrre bellezza che hanno i salentini. Lo incontro in un sabato pomeriggio ancora una volta infuocato nel piccolo bar pop di Porta Rudiae, mi fa omaggio di una serie di cataloghi, nessuno dei quali a dire il vero riesce ad esprimere la complessa e poliedrica personalità artistica e umana di Salvatore, ma tutti descrivono la sua straordinaria e ricca produzione che nasce tra queste pietre leccesi candide, calde, viventi. Era lui che mi era stato segnalato, e che per primo avevo intravisto quale capace di trasmettere il paesaggio e l’arte a queste originali e uniche latitudini, per le quali confessare un mio amore, non più segreto, può apparire scontato. Ma senza amore non si vede nulla, anzi si è miopi, ciechi.
Il pomeriggio di venerdi avevo incontrato la signora Rimbaud, che confessa di non essere discendente del grande poeta, ma secondo me si per la sua passione per i segni che sono come le parole. Faccio una visita esaustiva della bellissima collezione Biscozzi-Rimbaud, che annovera opere d’arte pregevolissime, per i leccesi si tratta di un privilegio che dovrebbero vivere con più frequentazione. In questo periodo la Fondazione ospita anche un lavoro site-specific di Yuval Avital, artista di origine israeliana che vive in Italia e che propone sculture dinamiche, sonore, una originale rivisitazione dei Menhir pugliesi con raffigurazioni iconiche. Tra tante eccellenti opere esposte nello spazio Biscozzi-Rimbaud, guardo quasi in estasi un De Pisis “parlante” per la sua intensa espressività, un “Mare aperto” di Salvatore Esposito che, pur se astratto, è più potente di qualsiasi figurativo, scoprendo tra le diverse e magnifiche opere, due pezzi di Salvatore Sava.
In realtà mi colpisce, una delle due, in un piccolo cortile di questo spazio rimesso in ordine da un raffinato progetto di Arrigoni Architetti, un albero di arancio con sotto fiori di pietra. La mia guida, in Fondazione, che ringrazio ancora per l’accurata descrizione delle opere, mi spiega che Salvatore ha fatto rifiorire, in tutti i sensi, la zagara odorosa che stordisce, e come “guardiani” ha messo i suoi fiori di pietra su steli di ferro alla base dell’albero. Mi è sembrato un gesto d’amore raro, discreto, poetico come poche volte visto. E qui scopro l’anima dell’artista che ama e vive nel paesaggio salentino, nella natura, tra le terre, tra i suoi alberi, inclusi quelli colpiti a morte dalla Xylella che lui salva e fa rinascere con un segreto che solo gli artisti come lui sanno, e che da questa esperienza con la terra trae ogni giorno spunti per l’arte, nei suoi paesaggi. Si, perché Salvatore Sava non realizza opere d’arte, ma brani compiuti e pieni di infiniti significati di paesaggi terreni e lunari, in cui devi entrare con la stessa discrezione con cui lui le realizza per coglierne la vera cifra espressiva e cercare sintonie e significati.
E se è vero che guardiamo l’arte perché cerchiamo sempre qualcosa che abbiamo perduto, nelle opre di Sava cerchiamo il nostro amore, rapporto, smarrito con la natura e la sua infinita varietà di forme e colori. Dedico queste righe alla bellezza vista -e ahimè in parte solo intravista- in questi luoghi, in questo secondo intenso viaggio nelle terre salentine, una bellezza multiforme che mi colpisce ogni volta che me la trovo di fronte, e tra questi paesaggi, questi piani leggermente inclinati distesi vero il mare, con olivi secolari su terre rosse aride, la intravedo, mi abbaglia a tratti, mi consola, mi appaga del mio cercare e diffonderla. Questo secondo editoriale conclude la mia ricerca nei posti, necessaria per sentire, respirare il senso dei luoghi, vedere, incontrare, parlare, ascoltare, socializzare, e sancisce la chiusura redazionale del secondo, ricco volume cartaceo, il numero 2, di disegnoallitaliana che sarà una magnifica sorpresa di settembre.
Mi faccio così capace che quando il paesaggio incontra l’arte, e viceversa, accadono cose imprevedibili, perché da secoli è la natura che ha guidato tutta l’opera di grandi artisti, e la narrazione dell’arte è anche la descrizione di come il paesaggio, e la natura che ne è il sustrato vivente, cambia per l’azione umana, a volte irreversibilmente e con sottrazione di valori, altre volte con una qualità che ne aggiunge di nuovi. E non a caso la mia giovane, esperta guida salentina, l’instancabile architetto Vincenzo Guarino, che ringrazio per le sue preziose informazioni, mi porta a conoscere un architetto che del paesaggismo autentico ha fatto la sua principale esperienza professionale, Gabriele Fanuli. Alcuni dei suoi giardini sono un sapiente mix di elementi naturali della locale biodiversità, tra i quali il Castello Elvira a Trepuzzi che Fanuli indica come il manifesto del suo operare tra design e paesaggismo. Salvia, rosmarino, prati e arbusti mediterranei, tra muri in pietra leccese, per contrastare la tendenza arida del Salento circondano il romantico, decadente castello recuperato e divenuto una dimora del turismo esclusivo di queste terre, con interni dal raffinato gusto di un abitare originale con stile. Fanuli è autore anche del sapiente recupero, integrale, di Palazzo Mastore a Copertino che lui stesso ha disegnato dall’interiorismo fino al piccolo, rigoglioso giardino mediterraneo, utilizzando con gusto e sapienza progettuale arredi di recupero, opere d’arte contemporanea, in una sequenza di stanze dal sapore classico in vesti contemporanee. Nel palazzo, collocate con sapienza, si scorgono opere luminescenti del visual artist e concept designer leccese Giovanni Lamorgese, “una personalità versatile”. Sulla stessa lunghezza d’onde dell’approccio dentro il paesaggio, si muove l’esperienza di Messapia Style, a Supersano, ad opera di Emilio Sanapo e Samuele Macrì, che dell’abitare naturale hanno fatto il loro concetto di costruire nel rispetto di una lunga, significativa tradizione ecologica che oggi non è più moda, ma necessità. Messapia Style utilizza nei progetti e nelle costruzioni materiali quali canapa e calce, rifacendosi a modelli costruttivi che testimoniano ancora oggi il sano equilibrio tra ambiente, contesto, edilizia.
Molte sorprese mi deviano dal percorso tracciato, ma sono scoperte di interesse e muovendomi in questa realtà che ha una geografia piuttosto complessa, non posso fare a meno di soffermarmi a capirne la genesi e le risultanze. Del resto, il Salento è una regione nella regione, con una cultura quasi a parte rispetto al resto delle Puglie, una penisola che si distende tra Jonio e Adriatico, che affonda nella preziosa presenza messapica le origini e che è stato per millenni territorio al centro di intensi scambi di civiltà mediterranee. Si tratta, quasi, di un ponte tra Oriente ed Occidente da cui sono scaturite le tante isole linguistiche, tra le quali la più persistente del “griko”, in un contesto così ampio che ancora oggi racchiude una originale compresenza di razze e culture di cui i paesaggi, inclusi quelli costieri frastagliati e densi di differenze morfologiche, sono variabili espressive.
Se nella città principale, Lecce, la presenza barocca è predominante, per quanto diffusa anche in episodi minori, ma non meno importanti, la cultura dell’abitare, l’architettura hanno lontane origini. A partire dalle grotte abitate, dolmen e menhir, per poi proseguire nelle “pajare”, in veri e propri insediamenti come le masserie fortificate, per diffondersi ovunque attraverso i rugosi muri a secco che segnano in modo indelebile i tratti del paesaggio salentino, vere opere d’arte popolare e spontanea.
A Lecce, nei pressi di Liberrima nel comodo dehor del vicino bar, dove si può osservare tutto lo struscio del Corso, incontro prima lo storico dell’architettura, Fabio Antonio Grasso, poi Dariush Radpour, geniale disegnatore e inoltre fotografo con una sofisticata tecnica 3D, che vive a Lecce da diversi anni e che ha insegnato anche allo IED di Roma, prima di trasferirsi a Lecce. Ha fatto scuola nel disegno satirico italiano e in molti ricordiamo, fin dagli anni Ottanta, i ritratti a penna e colore veloci ed espressivi di protagonisti della cultura, arte, politica ripresi dal suo tratto che scava nelle personalità. Anche lui feconda con il suo lavoro la scena creativa salentina! A Lecce resiste anche il modernismo d’interni, nell’originale Profumeria Liguori, in piazza Mazzini, opera di un architetto milanese sul finire degli anni Cinquanta, ma anche quello che resta di uno spazio urbano molto frequentato, ovvero la Galleria della piazza, un salotto buono per tutte le stagioni. Sulla piazza insiste, inoltre, una pregevole architettura di Carlo Aymonino, tra le più interessanti di questo protagonista della scena italiana del dopoguerra, l’edificio d’angolo con Via Nazario Sauro, realizzato nel 1978. Mentre nei palazzi che circondano la Piazza, mi fa notare l’architetto Stefania Galante, che mi guida in quest’altro tour, si scorgono gli ultimi bagliori di uno smarrito senso comune del decoro nei sovraporta degli ingressi, ciascuno opera originale di artisti locali. Mi ricavo un pò di tempo per rivedere un luogo speciale: la facciata della stupenda basilica di Santa Croce. Si tratta più che altro di un doppio sogno alla Schnitzler, il mio desiderio di ritrovarmi, solo, in un luogo in cui all’età di 23 anni, “destinazione militare a Lecce”, ebbi il piacere della scoperta, neoarchitetto, della forza dell’architettura in tutte le epoche, della conferma che la storia è fondamentale per capire il presente. La complessa macchina decorativa barocca della facciata conferma che l’architettura è pensiero, significato, simboli, spazio e forma che senza relazione con il contesto è pura decorazione stilistica. In tutto lo spazio dilatato della piazza antistante la basilica, la dinamica urbana e l’architettura vivono in simbiosi armonica. Avevo, inoltre, desiderio di trovare tempo per un breve pensiero a mio padre che mi “raccomandò”, inutilmente, all’allora presidente della Provincia, che ha sede nel superbo palazzo annesso alla basilica, ex convento dei Celestini. Inutilmente perché feci appena 15 giorni di servizio militare, ma fu mio padre, che amava arte e bellezza quanto me, che mi disse di godere delle meraviglie di Lecce. Non ho mai dimenticato la sua preziosa lezione.
Il pomeriggio lo dedico ad una vista speciale nel superbo Palazzo Tamborino Cezzi, una vera dimora nobiliare in cui si mescolano in perfetto equilibrio decadenza, eleganza, fascino dell’architettura storica. Il palazzo ospita, per il secondo anno, una rassegna d’arte, “Palai”, ad opera di un gruppo di galleristi che espone e commercializza opere di artisti internazionali, affermati ed emergenti. Mi perdo in questa architettura tardomanierista, scorgo il piccolo, ma prezioso giardino salentino, mi avventuro nei corridoi decorati a grottesche che accolgono tagli di luce fendenti dalle grandi vetrate affacciate sulla corte interna, in un elegante gioco di riflessi e trasparenze che conferisce una insolita leggerezza a questa architettura di pietra leccese. Mi soffermo nell’intatto spazio della biblioteca dove vorrei lavorare ogni giorno, talmente è stimolante e accogliente.
Le opere d’arte qui esposte acquisiscono un significato particolare che le lascia sospese tra questo esteso e dilatato tempo antico e una imprevista contemporaneità. “Palai” è scelto perché in Griko significa appunto palazzo, e di questa architettura ha tutte le caratteristiche stilistiche e spaziali, dalla corte, alle scuderie, fino al piano nobile, a partire dalla singolare e scenica facciata che chiude con eleganza la piazza su cui affaccia l’edificio. Varcata la soglia del portone lasci dietro di te il resto del mondo e dialoghi, di nuovo, con il paesaggio urbano interiore, lo spazio, la luce, la natura e l’arte di ieri e di oggi.
Il sabato sera non mi lascio sfuggire l’occasione di una visita all’originale laboratorio teatrale Koreja a Lecce, che raggiungo in bici attraversando una periferia tutto sommato abitata e abitabile per essere quella di un contesto meridionale. Il Koreja è un teatro, esito di una pregevole architettura del progettista romano Luca Ruzza, pensata insieme ai membri del laboratorio teatrale, che si presenta sottoforma di una “scatola nera” urbana, la quale si erge su più fronti come un presidio culturale capace di rigenerare i luoghi esterni dal centro città. Una serata in cui la pièce “Simona, the gangster of art”, con attrice nel ruolo protagonista Irene Urciuoli, idea, testo e direzione Jan Fabre, che in un lungo monologo fa riflettere sul ruolo del mercato dell’arte, sulla lotta per il potere della bellezza. Con diverse copie false del dipinto “L’urlo” di Munch riesce a comprare quantità enormi di cocaina con cui costruisce la sua colonna cristallina, sua opera d’arte, per “rompere con il nostro egoismo economico criminale…affinché il valore intrinseco dell’arte, i poteri curativi e spirituali della bellezza, abbiano di nuovo una possibilità”. In fondo andare a teatro è stato toccare con mano il polso culturale della città: il 29 luglio, caldissimo, il teatro è pieno di giovani e non, pubblico attento, curioso, e i temi arte e società sono parte della riflessione che porto avanti ora e da tempo e che riverberano anche il significato di questi luoghi nelle terre di Levante.
Il dopo teatro, con il gran caldo accumulato è un gelato rinfrescante, così scopro ancora una delle eccellenze leccesi, la pasticceria Natale che offre a tutti i suoi clienti, oltre raffinate e prelibate dolcezze, un santino con la preghiera al “Santo pasticciotto”, opera del brillante collettivo di creativi di Freejungle: “… Fa miracoli da secoli, Profuma di Lecce e dei suoi vicoli. E sotto sotto, C’è chi ai Santi sul cruscotto preferisce lui, lu Santo Pasticciotto!”…
L’ultima giornata domenicale, in vista della ripartenza pomeridiana, mi muovo nell’entroterra leccese alla scoperta di un legame comune di questi luoghi del quale mi piacerebbe impossessarmi anche per capire il carattere dei salentini. La pietra, i menhir, dolmen, le chianche e chiancarelle, le pajare ancora sparse qua e là, gli ulivi, le terre arse e dai toni cangianti, la luce che abbaglia, i cieli di un azzurro che si può cogliere solo qui e in poche altre realtà meridiane, il vento caldo, castelli come moderne architetture che dal Quattrocento in poi presidiano territori. E poi palazzi e case a formare insediamenti densamente popolati e distesi in questa diffusa campagna abitata, punteggiando un paesaggio in cui tra il verde degli alberi e il rosso bruno delle terre, emergono queste teorie di infiniti punti bianchi degli abitati. Il mare si intravede nel suo blu infinito alla fine di tutto e segna un orizzonte irraggiungibile, che si perde a vista d’occhio nello stesso blu dei cieli.
Torno a Salvatore Sava e a lui, come sintesi di tutto, dedico queste note finali perché mi pare riassuma il senso del fare arte in questo affascinante paesaggio, dove coltura e cultura si intersecano e figure, spazi e forme si alimentano ciascuna nel dare identità singole e all’insieme.Sava è suo modo la trasposizione contemporanea della forza espressiva delle forme e dei segni, dai messapi, bizantini, al barocco, ai muri a secco, così che i suoi giardini, alberi di pietra su steli metallici, le sue opere, tra i gialli e verdi acidi sono la trasfigurazione del naturale che non perde espressività, sono gli ulivi contorti, in amore, che si abbracciano da secoli, che muoiono e rinascono, sono i frutti della terra e le infinite, impreviste tonalità. La sua opera acquisisce forza e giova della luce accecante, delle terre e delle pietre, delle stesse tante sfumature cromatiche dei paesaggi del Salento che l’opera di questo artista, nel senso più vero del termine, incarna come pochi.